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I rischi dell'arretramento della democrazia

02 maggio 2022

I rischi dell'arretramento della democrazia

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Di seguito l'intervento del professor Damiano Palano, direttore del Dipartimento di Scienze politiche, in occasione dell'incontro "La democrazia italiana nella crisi" promosso da Polidemos, il nuovo Centro per lo studio della democrazia e dei mutamenti politici, sorto per iniziativa di alcuni studiosi dell’Università Cattolica. 

Il Centro intende promuovere e svolgere ricerche sui mutamenti nei sistemi democratici, sulle trasformazioni nelle concezioni della democrazia e sulla dimensione internazionale della democrazia. L’obiettivo è dunque favorire la discussione sulla democrazia operando a più livelli: al livello della ricerca accademica, mediante ricerche originali sul tema dei mutamenti democratici, considerato da differenti prospettive disciplinari e con un’ottica multi-interdisciplinare; al livello della discussione pubblica, mediante prodotti editoriali ed eventi pubblici; al livello della più ampia divulgazione, disseminando i risultati delle proprie ricerche mediante iniziative rivolte a organizzazioni della società civile, insegnanti e cittadini interessati.


Nel discorso tenuto nel dicembre 2021 ad Atene, in occasione del suo viaggio apostolico in Grecia, Papa Francesco ha utilizzato le parole con cui San Gregorio di Nazianzo, nel VI secolo d.C., aveva celebrato la città greca, «aurea e dispensatrice di bene». Parlando dai luoghi in cui nacque l’idea occidentale di democrazia, il Pontefice ha anche formulato una diagnosi sulla condizione in cui si trovano oggi i sistemi politici occidentali e ha in particolare adoperato parole che meritano di essere ricordate: «Non si può […] che constatare con preoccupazione come oggi, non solo nel Continente europeo, si registri un arretramento della democrazia. Essa richiede la partecipazione e il coinvolgimento di tutti e dunque domanda fatica e pazienza. È complessa, mentre l’autoritarismo è sbrigativo e le facili rassicurazioni proposte dai populismi appaiono allettanti. In diverse società, preoccupate della sicurezza e anestetizzate dal consumismo, stanchezza e malcontento portano a una sorta di “scetticismo democratico”. Ma la partecipazione di tutti è un’esigenza fondamentale; non solo per raggiungere obiettivi comuni, ma perché risponde a quello che siamo: esseri sociali, irripetibili e al tempo stesso interdipendenti».

La diagnosi formulata dal Papa Francesco alcuni mesi fa – prima che la guerra tornasse dopo molti anni sul territorio europeo – rappresenta un ottimo punto di partenza, per la discussione di oggi. Riconoscendo la tendenza verso un «arretramento della democrazia» e sottolineando come sia anche una minaccia ‘interna’ – la minaccia dello «scetticismo» verso la democrazia – a corrodere le istituzioni democratiche, Papa Francesco ha infatti accolto la lettura proposta da molti politologi contemporanei.

Molte letture dedicate al «malessere» o alla «crisi» della democrazia proposte nel corso dell’ultimo trentennio hanno evidenziato processi difficilmente contestabili: il declino della partecipazione politica, la decadenza del ruolo delle grandi organizzazioni di massa, l’aumento della sfiducia riposta in classe politica e istituzioni, la «depoliticizzazione» di molte importanti aree decisionali, il ridimensionamento del welfare state e la «commercializzazione» della cittadinanza. Negli ultimi anni, la discussione sulle sorti della democrazia ha però imboccato una nuova direzione. Eventi in parte inattesi o comunque clamorosi – come l’esito del referendum sull’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea, la conquista della Casa Bianca da parte di Donald Trump, l’ascesa politica di personaggi come Jair Bolsonaro, Rodrigo Duterte, Narendra Modi, il successo delle formazioni populiste in molti paesi europei – hanno bruscamente modificato la percezione di molti osservatori, alimentandone il pessimismo e materializzando ombre piuttosto cupe. Per effetto dello shock provocato da eventi imprevisti è così tornata in scena l’ipotesi di una svolta in senso autoritario nelle democrazie consolidate che negli anni Trenta del Novecento era parsa plausibile. Alcuni politologi hanno iniziato a porsi dunque interrogativi decisamente radicali e si sono chiesti se non ci troviamo dinanzi, più che a mutamenti fisiologici nei singoli sistemi nazionali, a tensioni che logorano le basi culturali, le norme, le prassi sulle quali le democrazie occidentali si fondano. Essi hanno così cominciato a chiedersi se, insieme alle aspirazioni di uguaglianza e di emancipazioni coltivate nel Novecento, corra rischi sostanziali la stessa ‘forma’ della democrazia liberale.

Proprio a partire dal 2016, molti osservatori hanno iniziato a sospettare che alcuni eventi clamorosi – come la vittoria di Donald Trump e il risultato del referendum sulla Brexit – rappresentino il preludio di un «tramonto del liberalismo», destinato a minare i sistemi democratici (o a sancire l’avanzata di una minacciosa «democrazia illiberale»). La tesi secondo cui sarebbe in atto una «recessione» della democrazia è stata però proposta ben prima del 2016, non con riferimento agli assetti interni delle liberaldemocrazie, ma a proposito delle prospettive globali dei processi di democratizzazione. Secondo Larry Diamond, la «recessione» è infatti soprattutto la conseguenza dell’esaurimento della cosiddetta «terza ondata» di democratizzazione, iniziata nel 1974 e poi esplosa nel 1989, con la dissoluzione dei regimi del socialismo reale. Essa sarebbe dunque principalmente legata all’arresto della crescita quantitativa dei regimi democratici presenti nel mondo e anche alla diminuzione (meno pronunciata) del numero di Stati che rispettano i requisiti ‘minimi’ di un regime democratico. Più precisamente, Diamond ha individuato nel 2006 il momento in cui prese avvio la «recessione», perché da quell’anno, dopo un ventennio di diffusione della democrazia nel mondo, la tendenza all’aumento complessivo dei regimi democratici cominciò ad arrestarsi, per poi a invertirsi.

La tesi della «recessione democratica» ha incontrato anche qualche seria obiezione, che invita a ridimensionare la portata del deterioramento. Negli ultimi anni diversi indici sullo stato della democrazia hanno però confermato il quadro di un peggioramento complessivo, che la pandemia ha ulteriormente aggravato. Il rapporto 2022 di Freedom House sulla libertà nel mondo segnala, per il sedicesimo anno consecutivo, un deterioramento della condizione della libertà nel mondo. In termini generali, il 38.4% della popolazione mondiale vive in “Paesi non liberi”, il 41.3% vive in “Paesi parzialmente liberi” e, infine, solo il 20.3% vive in “Paesi liberi”.

Per quanto sia difficile formulare previsioni sul futuro, sembra che i due anni crisi pandemica abbiano aggravato ulteriormente la «recessione democratica». Dinanzi al dilagare della pandemia, i capi degli esecutivi non hanno d’altronde esitato a rivolgersi direttamente alla popolazione, utilizzando strumenti che – per quanto resi necessari dalla situazione – risultano evidentemente limitativi dei diritti dell’opposizione e dell’equilibrio dell’informazione. Al tempo stesso, la pandemia ha condotto a una rapida estensione del potere esecutivo, perché, per rispondere alla diffusione del contagio, molti governi si sono di fatto trovati ad adottare misure dalle enormi implicazioni – sull’economia, sulla società e su pressoché ogni aspetto della libertà personale – scavalcando le assemblee rappresentative e ogni discussione politica.

Le tensioni che le democrazie occidentali hanno affrontato durante l’emergenza sanitaria (e che si troveranno ad affrontare nel prossimo futuro) non dipendono ovviamente solo dal Covid-19 o dall’impatto che la pandemia provoca sui flussi dell’economia globale. Esse sono infatti intrecciate con dinamiche di lungo periodo, come, in primo luogo, la «crisi fiscale» dello Stato, il ‘declino relativo’ dell’Occidente (sotto il profilo economico, politico e culturale) e la crisi di fiducia nei partiti e nella classe politica. Forse, la miscela di fattori (vecchi e nuovi) potrebbe innescare una nuova ‘ondata populista’, come quella che ha segnato gli anni Dieci del XXI secolo, ma non è affatto scontato che a capitalizzare il risentimento della depressione economica debbano essere i protagonisti della scena politica precedente all’irruzione della pandemia.

L’emergenza pandemica non è ancora conclusa, perché il virus continua a circolare in Italia, in Europa e nel mondo. Inoltre, alla crisi pandemica si sono andate intrecciando negli ultimi mesi una crisi energetica, che potrebbe innescare una preoccupante spirale inflazionistica, e una traumatica crisi politica, che ha riportato la guerra in Europa. Tutti questi elementi rendono ancora più preoccupante la situazione e sembrano materializzare l’incubo di una generale crisi sistemica, destinata ad accrescere l’instabilità, la violenza, la povertà.

Ogni bilancio è dunque prematuro e sarebbe inutile oggi dipingere scenari catastrofici, o eccessivamente pessimistici. Questi elementi di crisi devono però essere tenuti in considerazione, perché potrebbero contribuire ad aggravare tanto la “recessione democratica”, quanto lo “scollamento” tra cittadini e istituzioni, la sfiducia nei confronti della politica, lo “scetticismo” verso la democrazia. In prospettiva futura, uno degli elementi più critici sarà in effetti rappresentato proprio dalla “fiducia” e dalla resistenza del “tessuto sociale” che regge le nostre democrazie.

Nei due anni di pandemia, si è infatti probabilmente accelerata la tendenza alla “individualizzazione” delle nostre società. Tutti noi ci siamo abituati a lavorare da casa, ci siamo assuefatti alle nuove piattaforme digitali, ci siamo familiarizzati con nuovi modelli consumo (non solo mediale). Per quanto queste trasformazioni possano avere reso più “comode” molte attività, esse presentano molti rischi anche per la vitalità delle nostre democrazie. Una “buona” democrazia non dipende infatti solo dal rispetto dei diritti individuali o dalla libertà di stampa, ma dipende anche dalla forza del tessuto civico della società, dalla presenza di reti di capitale sociale, dalla partecipazione dei cittadini alla vita delle comunità. Nel passato, l’Italia è riuscita a superare momenti di crisi anche grazie al capitale sociale presente nei territori, che ha compensato l’inadeguatezza delle istituzioni e talvolta delle élite politiche. Non è detto che la democrazia italiana possa contare ancora a lungo su questa preziosa eredità del passato, ma anche per questo sarà probabilmente necessario immaginare percorsi che consentano di conservare, arricchire e potenziare quelle reti di capitale sociale, di fiducia interpersonale, di partecipazione e disponibilità alla cooperazione, di cui una solida democrazia non può fare a meno.

 

 


Credits: Photo by Fred Moon on Unsplash

Un articolo di

Damiano Palano

Damiano Palano

Direttore Dip. Scienze politiche - Università Cattolica

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