Che Javier Milei potesse diventare Presidente dell’Argentina era risultato chiaro ad agosto, nell’inconsueto appuntamento elettorale delle primarie a cui tutti i partiti politici argentini sono chiamati a partecipare obbligatoriamente. In quell’occasione Milei aveva riscosso un consenso che smentiva la prudenza dimostrata fino a quel momento dalla maggioranza degli analisti politici. E sebbene al primo turno del mese scorso “El Loco” – così è stato ribattezzato per il suo repertorio trasgressivo e irriverente – sia arrivato alle spalle del rivale peronista Sergio Massa, il risultato del ballottaggio del 19 novembre non solo lo ha proiettato come futuro inquilino della Casa Rosada, ma gli anche consegnato una legittimità politica fatta di un margine di ben 12 punti percentuali. Un’enormità che equivale a quasi tre milioni di argentini e che lo ho portato a ribadire, all’indomani del voto, il suo impegno a “disboscare” lo Stato, evidenziato dalla vistosa esibizione in un comizio di una motosega, diventata poi uno dei simboli della sua campagna elettorale.
I sondaggi a ridosso del ballottaggio suggerivano un testa a testa, ma è evidente che la pazienza nei confronti del peronismo fosse ormai ai minimi storici, se consideriamo la cocente sconfitta rimediata persino in bastioni elettorali come le province settentrionali del Tucumán e del Chaco e quella meridionale di Santa Cruz. Al peronismo rimangono fedeli solo tre province, tra cui quella di Buenos Aires, ma di poco. Quali le colpe? Il contesto economico ha funto da principale generatore di un malcontento dilagante. In un paese con un’inflazione che ha raggiunto un tasso del 140% annuale e una povertà dilagante, non è difficile comprendere perché i detentori del potere vengano ripagati con un voto avverso, specie se il candidato è il Ministro dell’Economia. Ciò non significa che gli elettori di Milei si riconoscano in toto nel suo programma turbo-capitalista, ma ciò è irrilevante: in alcuni snodi storici non è tanto importante il contenuto specifico di una proposta politica, quanto la capacità di incarnare un’alternativa allo status quo e una nuova promessa di ordine. A scanso di equivoci, va però sottolineato che la situazione economica non è attribuibile esclusivamente al peronismo, ma allo storico problema della fuga dei capitali, un tema che nessun governo è riuscito ad affrontare seriamente per i pesanti costi politici che implicherebbe, così come all’infelice accordo con il FMI siglato nel 2018 dal Presidente di centro-destra Mauricio Macri.
Ma dietro l’esito elettorale vi sono anche responsabilità politiche, queste sì imputabili per intero al peronismo. L’impopolarità del Presidente uscente Alberto Fernández – che ha preso avvio grossomodo con la festa organizzata dalla moglie presso la residenza presidenziale durante il periodo di confinamento –, le lotte intestine al peronismo esibite ai quattro venti negli ultimi anni, l’opaca gestione dell’amministrazione pubblica, sia a livello nazionale che locale, hanno fornito un facile assist al discorso anti-casta di Milei. Tale narrazione richiama per certi versi quella di Grillo di alcuni fa, ma in questo caso è stata declinata in chiave liberista all’insegna della drastica riduzione del ruolo dello Stato, sia per coloro che dipendono dalla politica (o dalla burocrazia), sia per i percettori di sussidi, considerati alla stregua di parassiti su una linea molto simile a quella che fu di Margaret Thatcher.
C’è infine una questione più culturale. Il peronismo ha adottato e voluto imporre un’identità culturale progressista propria della classe media di Buenos Aires, flirtando a più riprese con un’agenda woke. Quest’ultima è risultata distante per quei segmenti elettorali non urbani che vivono nelle zone interne del paese. Ciò segnala in maniera allarmante la crisi di rappresentatività di alcune organizzazioni sociali apparse negli ultimi anni. In tal senso, la vittoria di Milei, seppur con peculiarità nazionali, si allaccia a un trend internazionale che potremmo riassumere con il titolo di un libro scritto qualche anno fa proprio da un argentino: “La ribellione è diventata di destra” (La rebeldía se volvió de derecha). In questo testo, Pablo Stefanoni argomenta come le “guerre culturali” delle “destre alternative” siano riuscite a sfilare la bandiera dell’indignazione e del cambiamento a sinistre preoccupate con il politicamente corretto e sempre più associate all’establishment. Il progressismo, visto come un’élite che restringe il pensiero e l’azione dell’uomo comune attraverso forme inquisitive presentate come totalitarie, diventa quindi il bersaglio della feroce critica di queste nuove destre. Si tratta senza dubbio di forzature, nondimeno capaci di intercettare il disagio sociale di certe aree e orientare in maniera spesso decisiva i comportamenti elettorali.