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La convergenza di interessi dietro la strage di Capaci

20 maggio 2022

La convergenza di interessi dietro la strage di Capaci

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A trent'anni dalla strage di Capaci, uno degli eventi più tragici della storia repubblicana e che ha segnato un punto di volta nella lotta alla criminalità organizzata, vi proponiamo un estratto dal libro "Mafia. Fare memoria per combatterla" di Antonio Balsamo, edito da Vita e Pensiero. Presidente del Tribunale di Palermo, il 24 maggio 1992 fu chiamato a indossare per la prima volta la toga per vegliare i corpi straziati di Giovanni Falcone, della moglie Francesca Morvillo e della scorta.
 


Nel pomeriggio del 23 maggio 1992, alle ore 17.56, l'Italia, fino a pochi minuti prima concentrata sulle elezioni del nuovo Presidente della Repubblica, si trovò improvvisamente proiettata all'interno di una scena di guerra. L'immagine che scosse in profondità il nostro Paese, e tutto il mondo, era quella della spaventosa devastazione prodotta a Capaci, vicino Palermo, dall'esplosione che uccise Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, e gli agenti di polizia Antonio Montinaro, Rocco Di Cillo, Vito Schifani, mentre percorrevano a bordo di due autovetture blindate il tratto di autostrada tra l’aeroporto e la città.

Trent’anni dopo la loro uccisione, possiamo essere certi che il loro sacrificio non è stato vano. La strage di Capaci ha segnato uno dei momenti più drammatici della strategia del terrorismo mafioso, ma anche un punto di svolta nella coscienza civile del Paese e nell’azione dello Stato contro la criminalità organizzata.

Questa impresa criminosa, che per Cosa nostra doveva rappresentare l’espressione della massima potenza, ha segnato, in realtà, l’inizio della fine di un’epoca nella quale la mafia dei ‘corleonesi’ poteva contare su un solido rapporto di alleanza e cointeressenza con numerosi settori del mondo sociale, dell’economia e della politica. Dopo la strage di Capaci, Cosa nostra è stata percepita dall’intero Paese, e dalla comunità internazionale, come un fenomeno criminale di stampo eversivo capace di colpire al cuore lo Stato italiano, e non più come una componente strutturale della società siciliana, una subcultura meridionale, una situazione locale con cui diversi ambienti esterni potevano pensare di convivere in una posizione di malcelata indifferenza, interrotta da saltuarie spinte emozionali.

Si tratta di un evento drammatico che è rimasto scolpito nella memoria collettiva e ha cambiato davvero la storia dell’Italia, ma in senso opposto rispetto a quello che avevano immaginato i vertici di Cosa nostra. Sulla responsabilità dei singoli, si sono ampiamente soffermate le sentenze emesse dall’autorità giudiziaria. Ma, nelle stesse sentenze, si evidenziano le zone d’ombra su cui resta fondamentale un ulteriore approfondimento. Attraverso le più recenti ricostruzioni giudiziarie, è venuto a formarsi un quadro, sia pure non ancora compiutamente delineato, che conferisce maggiore forza alla tesi secondo cui centri di potere esterni a Cosa nostra possono essersi trovati in una situazione di convergenza di interessi con l’organizzazione mafiosa, condividendone i progetti e incoraggiandone le azioni.

Assumono un’indubbia rilevanza, sotto questo profilo, due aspetti: da un lato, l’attività ricognitiva e di ‘indagine’ di Cosa nostra volta a sondare la reazione di ambienti esterni rispetto al proposito di eliminare Giovanni Falcone; dall’altro lato, il cambiamento di programma comunicato da Salvatore Riina in data 4 marzo 1992, che pose fine alla ‘missione romana’ e diede avvio alla preparazione dell’attentatuni. L’idea che la strage di Capaci sia stata un fatto di mafia ‘pura’, immune da contaminazioni esterne e frutto di una decisione ‘autarchica’, si pone in insanabile contrasto con le dichiarazioni rese, nel corso della sua collaborazione con la giustizia, da un boss di primaria importanza che era stato capo del ‘mandamento’ di Caccamo, Antonino Giuffrè.


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Un articolo di

Antonio Balsamo

Antonio Balsamo

Presidente del Tribunale di Palermo

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