«La riconciliazione è un bisogno fondamentale, di cui avvertiamo l’urgenza a ogni livello – ha sottolineato Al-Issa –. C’è sempre il rischio che i conflitti si risolvano solo in apparenza, continuando a covare nei nostri cuori anche quando ormai li diamo per conclusi. Non dobbiamo dimenticare che, al di là delle differenze che ci contraddistinguono, condividiamo tutti la medesima origine: tutti apparteniamo all’unica famiglia umana. Per questo abbiamo bisogno gli uni degli altri. Se invece continuiamo a bruciarci a vicenda, finiremo per bruciare tutti. La riconciliazione parla la lingua del dialogo, parla la lingua della ragione. Ma dobbiamo avere il coraggio di domandarci se davvero, in questo momento, le istituzioni religiose svolgano un ruolo di riconciliazione, in assenza del quale non si dà fede, ma solo estremismo, ideologia, propaganda. Dio è clemente, saggio e misericordioso. Anche quando ci mette alla prova, non fa mai venire meno la fiducia nel bene, perché il male non dura mai».
«Vero, ma è anche vero che il male non sta mai fermo – ha commentato il Card. Zuppi –. L’odio non è mai inerte, per questo la riconciliazione non può restare relegata nell’ambito delle buone intenzioni. Si tratta di un’occupazione molto seria e tutt’altro che facile. Lo si comprende bene se si ricorda il titolo che San Giovanni Paolo II volle dare nel 2002 al Messaggio per la Giornata mondiale della pace: Non c’è pace senza giustizia, non c’è giustizia senza perdono. Solo chi ha perdonato, liberandosi dalle scorie della vendetta, può veramente chiedere giustizia. Così funziona il futuro anteriore, appunto. Pensate a una frase semplicissima come “quando sarò andato, troverò…”. L’accento cade sull’iniziativa del mettersi in cammino. Ma se non mi muovo, se non vado da nessuna parte, è impossibile che riesca a trovare qualcosa».
I segnali positivi non mancano. Al contrario, esiste una linea di continuità ormai evidente, che lega tra loro il Documento sulla Fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune sottoscritto nel 2019 ad Abu Dhabi da Papa Francesco e dal Grande Iman di Al-Azhar, Ahmad Al-Tayyeb, e la Carta della Mecca, che nello stesso anno ha solennemente sancito la pari dignità tra i credenti di tutte le confessioni religiose (realizzato con il consenso di studiosi islamici provenienti da 139 Paesi, il testo è stato redatto su iniziativa del Segretario Al-Issa), e ancora l’Enciclica Fratelli tutti del 2020 e la recente dichiarazione sul tema della convivenza promossa dalla Lega Musulmana Mondiale. Si inserisce in questo clima anche una delle mostre più sorprendenti del Meeting, La fuga. In Egitto ha vissuto mio figlio, nata dall’intuizione dello stesso Farouq e allestita con il decisivo contributo del Centro culturale copto ortodosso del Cairo, il cui direttore, Sua Eminenza Anba Ermia, è intervenuto a Rimini, assistendo tra l’altro all’incontro sulla riconciliazione. La mostra – che si avvale del contributo scientifico dell’Università Cattolica – ricostruisce il percorso dell’evangelica fuga in Egitto, basandosi sulle numerose tracce presenti nella tradizione religiosa dell’area e istituendo una suggestiva analogia tra l’esperienza della Sacra Famiglia e l’attuale condizione dei profughi.