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Il discorso inaugurale del Rettore Franco Anelli

25 ottobre 2023

Il discorso inaugurale del Rettore Franco Anelli

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È con grande piacere che rivolgo a tutti un caloroso benvenuto alla cerimonia di inaugurazione dell’anno accademico 2023/2024 dell’Università Cattolica del Sacro Cuore.

Nel corso della cerimonia verrà conferita la laurea honoris causa da parte della Facoltà di Economia al professor Guido Calabresi, al quale rivolgo un deferente saluto, ed esprimo il vivo apprezzamento, dell’Ateneo, mio personale e, penso di poter dire, di tutti i cultori delle discipline giuridiche, e civilistiche in particolare, per la scelta della Facoltà di Economia e della Preside, prof.ssa Antonella Occhino.

Ringrazio Sua Eccellenza Reverendissima Mons. Mario Delpini, Presidente dell’Istituto Toniolo di Studi Superiori, che, impegnato a Roma, nei lavori del Sinodo dei Vescovi, non ci ha fatto mancare la Sua parola tramite un videomessaggio.

Saluto l’Assistente Ecclesiastico Generale dell’Ateneo, Mons. Claudio Giuliodori, che ha presieduto la celebrazione eucaristica che ha aperto la giornata, i componenti del Consiglio di Amministrazione dell’Ateneo, i Pro-Rettori, i Delegati rettorali e i Presidi, il Direttore Generale e i rappresentanti dell’Istituto Toniolo di Studi Superiori.

Ringrazio per la loro presenza le Autorità Accademiche, Magnifici Rettori e loro rappresentanti, le Autorità Civili, Militari e Religiose; i colleghi docenti; il personale tecnico amministrativo, e con particolare affetto le studentesse e gli studenti.

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Nella legge Casati del 1859 (Regio Decreto n. 3725) – la prima disciplina organica del sistema di istruzione, elaborata in epoca cavouriana e il cui impianto sarebbe nella sostanza sopravvissuto fino alla riforma Gentile del 1923 – i rettori delle università erano nominati dal Re; la relazione annuale era dunque lo strumento con il quale, attraverso il Ministro, immediato referente – anzi, superiore gerarchico – del rettore, quest’ultimo rendeva conto al sovrano dell’andamento dell’università. Il modello napoleonico, accentrato e dirigista, non era ancora stato soppiantato da quello humboldtiano, che avrebbe dato maggior respiro alla libertà dell’insegnamento e all’autonomia organizzativa degli atenei.

Sebbene il destinatario non sia più, oggi, il sovrano – ed anzi gli atenei si trovino al centro di una rete di interlocutori, di molteplici e differenziati stakeholder portatori ciascuno di interessi peculiari ai quali l’università è chiamata a rispondere – la Relazione rimane pur sempre il mezzo con il quale si rende pubblicamente ragione di quello che si è fatto nell’anno passato e di ciò che ci si propone per quello a venire.

La prospettiva che si pone sul crinale tra il passato e il futuro è qui particolarmente appropriata perché l’attività più significativa dell’anno appena trascorso è consistita proprio nella redazione del piano strategico dell’Ateneo per i prossimi quattro anni.  È stato un lavoro non breve, e non lieve, che ha coinvolto tutte le strutture dell’Ateneo in una dialettica intensa e proficua.

Ringrazio per lo straordinario impegno anzitutto i Pro-Rettori e i Delegati rettorali, coordinati dal vicario prof. Pier Sandro Cocconcelli; i docenti riuniti nelle Facoltà, che sotto la guida dei Presidi hanno compiuto accurate elaborazioni portate a sintesi nel Senato accademico; il Direttore Generale e il Vice Direttore Generale, e tutta la linea manageriale dell’Ateneo.

L’elaborazione di qualsiasi progetto è accompagnata da un’ansiosa, spesso inconfessata domanda: ce la faremo? Raggiungeremo gli obiettivi? E ci riusciremo nei tempi previsti? Lascio per un momento da parte questa pur fondamentale, direi esistenziale, questione, perché prima occorre dire della premessa di metodo. Redigere un piano pluriennale non consiste soltanto in un più o meno esteso e articolato esercizio volto a individuare obiettivi, vale a dire situazioni materiali da concretizzare, e i percorsi per realizzarli. Richiede, anzitutto una comprensione della situazione, al fine di selezionare i bisogni più urgenti e verificare le condizioni del loro soddisfacimento.

Dunque le università sono chiamate, in particolare quando delineano il loro futuro, a essere “intelligenti”, a essere capaci di leggere dentro la realtà, di interpretare il mondo nel suo continuo mutamento.


Si potrebbe indubbiamente osservare che questo è vero per ogni organizzazione che si proponga di agire in modo non casuale ed erratico; ma sull’università grava una responsabilità aggiuntiva: dobbiamo capire non solo quello che serve a noi, per migliorare il modo in cui svolgiamo la nostra particolare attività, ma quello che serve agli altri. Infatti il ruolo sociale che le università hanno rivendicato nel corso della loro storia si pone in tensione tra due punti di riferimento: le attese dei giovani e i bisogni della società. Tuttavia non di rado un riduttivo approccio ha fatto coincidere le esigenze della società con quelle del mondo produttivo, con il rischio di ridurre gli atenei e in generale il sistema educativo a un processo meccanizzato volto a confezionare manodopera intellettualmente qualificata e di alimentare la convinzione che la sola aspettativa degli studenti fosse quella di conseguire una certificazione di competenze spendibile sul mercato del lavoro.

Un tale fuorviante approccio è rivelato talora anche dalle terminologie che si prediligono soprattutto quando, come diffusamente accade, si presenta la stagione degli studi universitari come fase di “completamento” della formazione dei giovani e quindi implicitamente di “chiusura” di un percorso educativo; al contrario dovrebbe piuttosto essere l’occasione di un inizio, dell’apertura della mente alla ricerca scientifica, all’elaborazione critica delle nozioni ricevute, alla curiosità per ciò che è ancora ignoto.

Dovrebbe essere, in altre parole, il luogo in cui non vengono date definitive risposte, bensì alimentate nuove aspirazioni. È stato detto (Appadurai, Il futuro come fatto culturale, 2013, 398) che per produrre futuro occorre appunto, tra l’altro, aspirazione, e «la capacità di aspirare è una capacità culturale nel senso che trae la propria forza dai sistemi locali di valore, di significato, di comunicazione e di dissenso. La sua forma è riconoscibilmente universale, ma la sua forza è nettamente locale»; e tale connotato contingente, aggiunge, si percepisce esaminando «il significato delle idee di vita buona nelle differenti società».

E proprio su questa idea di vita buona o comunque della vita cui si aspira, sembra che i giovani ci stiano dicendo qualcosa. Le recenti indagini sociologiche rivelano una crescente volontà delle nuove generazioni di essere loro a porre i nuovi valori ordinanti della società – si pensi ai movimenti per il contrasto ai mutamenti climatici e alla faglia generazionale che hanno aperto – e, sul piano individuale, di essere riconosciuti nella loro specificità, nella loro capacità di apportare valore nuovo attraverso la novità che essi stessi sono, mentre è evidente il rifiuto di un modello nel quale viene richiesto di acquisire competenze utili esclusivamente per andarsi a inserire in una certa casella, precostituita, di un organigramma aziendale. O di spendersi in una competizione meritocratica della quale – come denuncia Papa Francesco nella Laudate Deum (n. 32) – sono falsati i presupposti.

C’è, in questo approccio, una rivalutazione dell’idea di persona come individualità in relazione; e c’è una forte carica di originalità, di costruzione di nuovi schemi e modelli di relazione che appaiono radicalmente “rivoluzionari”; una rivoluzione senza tumulti e forse per questo ancor più incisiva. Se queste sono le attese, le aspirazioni come prima dicevo, evidentemente le università non possono trascurarle.

Si tratta, dicevo, di leggere la profondità del mondo. Tra le più ricorrenti aggettivazioni riservate all’epoca presente è quella che pone l’accento sul cambiamento. In realtà la tendenza a definire stagione di cambiamento il tempo in cui si vive è una delle più stabili costanti. Scandita in generazioni, e dunque coinvolta in un continuo processo di rinnovamento per sostituzione, l’umanità si è sempre percepita in divenire, almeno da quando il concetto è stato formalizzato dai filosofi greci.

Tuttavia questa considerazione non può costituire una via per eludere la necessità di chiedersi che cosa, nel profondo, stia davvero cambiando. E come questo tocchi – in modo inevitabilmente differenziato – le singole strutture sociali: nel nostro caso le università come istituzioni deputate alla ricerca e all’alta formazione. Di certo vi è che, se da Tucidide abbiamo imparato a intendere la storia come prognosi, nessuna previsione oggi sembra possibile, in questo primo tratto del nuovo secolo caratterizzato dall’inatteso, dagli eventi improvvisi, che ci hanno colpito in un’incalzante successione proprio in un momento in cui si confidava, grazie alla crescente capacità di accumulare e trattare le informazioni, di avere accresciuto la capacità di previsione.

Un secolo aperto dallo shock dell’11 settembre ci ha poi stupito con una crisi finanziaria innescata dalla “impossibile” bancarotta di un colosso economico; ci ha colto di sorpresa con una pandemia, con una guerra europea che appariva materia consegnata ai libri di storia e, ora, con un conflitto iniziato con la violazione di un confine che sembrava impenetrabile.  Ancora, la sequenza di atrocità cui abbiamo assistito in questo terzo millennio ci fanno dubitare di quanto le proclamazioni sulla sacralità dei diritti umani fiduciosamente elaborate all’indomani della Seconda guerra mondiale siano davvero divenute cultura universale.

Sembrerebbe, allora, che sia più prudente astenersi dal pianificare. Ma la prudenza inibente non è concessa, occorre progettare tenendo a mente le lucide parole di Niklas Luhmann: «Il valore delle previsioni è [tuttavia] nella rapidità con cui è possibile correggerle e nel fatto di sapere da cosa ciò dipende.»

Allora, in estrema sintesi, il problema diventa quello del modo in cui l’università attuale può confrontarsi con questi tempi e con gli specifici fenomeni che ne derivano.

Per molti versi, quella che veniva definita “università di massa” non esiste più. Naturalmente non si è esaurita la spinta ideale che ne era all’origine; anzi, oggi consideriamo l’universalità dell’accesso agli studi universitari come un tratto identitario delle nostre società evolute. Qualcosa di irreversibile. Eppure abbiamo un numero di laureati, a livello nazionale, ancora insufficiente a innescare efficaci processi di innovazione e modernizzazione del Paese.

Nel tentativo di rispondere a questa esigenza, ormai da diversi anni, il sistema dell’alta formazione si è dedicato a tracciare percorsi sempre più personalizzati – tagliati su misura rispetto alle richieste del cosiddetto mondo del lavoro. È storia degli ultimi decenni. E così, se all’ingresso resiste l’idea che l’università sia un luogo di formazione aperto a tutti, questa apertura non si traduce necessariamente in un approccio didattico olistico e multidisciplinare. Anzi, in uscita, i percorsi sono sempre più settoriali e specifici. Conosciamo i trade-off di un simile modello: sul versante dei pregi, la spendibilità professionale dei neolaureati; sul versante dei difetti, il rischio che ne risultino sacrificati la flessibilità cognitiva e lo spirito critico che un’educazione superiore dovrebbe assicurare.

Osservatori attenti del sistema universitario italiano hanno di recente segnalato una progressiva differenziazione tra università la cui proposta didattica è modellata pensando prioritariamente a un percorso magistrale e altre più orientate verso un’offerta triennale. Quest’ultima propensione, ovviamente, indebolisce l’accesso a percorsi di dottorato e la formazione di ricercatori: insomma si presenta come un piano inclinato per una progressiva divaricazione tra research e teaching universities.

Un simile processo metterebbe in crisi una delle caratteristiche virtuose del nostro sistema, ossia la qualità diffusa degli atenei, che, come sappiamo, non aiuta a conquistare le vette dei rankings internazionali, ma assicura una capillare relazione tra tessuto sociale e sistema universitario.

Non si può trascurare che l’università non è concepibile distinta dalla sua dimensione istituzionale, ossia dall’assolvere un preciso ruolo sociale e culturale che è legato alla sua tradizione e che la rende un elemento strutturale archetipico delle società contemporanee. E questo vale non solo per quelle antiche di millenni, ma anche per gli atenei relativamente giovani – e noi, con il nostro primo secolo di storia, siamo tra quelli – perché è l’appartenenza al sistema e la condivisione di un modello che rende ogni università, vecchia e nuova, partecipe di quella tradizione.

Non è il passato, ma la prospezione al futuro ciò che rende un’università, anche di recente fondazione, un’istituzione sociale; perché un ateneo è lì per restare, per essere ancora tra molti anni centro di conservazione, elaborazione e diffusione di pensiero e di conoscenza.

Le università non sono start up. Non nascono dall’intuizione di un businessman per poi crescere fino ad essere mature abbastanza per essere cedute a un investitore. La contendibilità non è un valore degli Atenei. La loro perennità, lo è. Il loro saper cambiare restando fedeli a sé stesse, rendersi attuali grazie alla conoscenza e alla ricerca, che li rende costantemente moderni, ossia la capacità, come è stato detto, di vivere all’altezza delle idee del tempo¹.

Torno alla questione prima messa da parte. Ce la possiamo fare? Abbiamo la capacità di raggiungere gli obiettivi che ci diamo?

Rispetto a un così inquietante interrogativo, posso cercare conforto nell’esperienza del precedente strumento di pianificazione, redatto nel 2015 per la durata di un quadriennio, e che poi a causa della pandemia, è stato aggiornato e prorogato fino all’elaborazione del nuovo documento programmatico.

Era, anche quella, una stagione di gravi incertezze. Le ricadute della crisi finanziaria mondiale preoccupavano, perché si era innescato un sentimento di sfiducia  verso l’istruzione universitaria e le sue promesse di miglioramento della condizione individuale e della qualità della società intera – anzi si era diffuso uno scetticismo verso la cultura, l’istruzione, la scienza stessa, che sarebbe poi esploso nel sentimento antiscientifico di parte dell’opinione pubblica durante l’epidemia da Covid-19 – con una conseguente diminuzione dei giovani che, dopo il diploma, erano disposti a completare la loro formazione mediante gli studi universitari. La riduzione generalizzata delle immatricolazioni sfiorava soltanto, e marginalmente, il nostro Ateneo, ma andava considerata come possibile scenario futuro; insieme al calo demografico; alla necessità di confrontarsi in un contesto globalizzato, con istituzioni universitarie internazionali, e di esserne all’altezza; all’affacciarsi su quello che ormai stava diventando – e direi che il processo è ormai conclamato – il mercato dei servizi e dei prodotti di higher education di nuovi aggressivi operatori, differenti per struttura, tradizione, obiettivi e modus operandi dalle istituzioni che la tradizione ci aveva consegnato (le università, le accademie, le grandes écoles), ma che erano in grado di offrire un prodotto, se non identico nel contenuto quanto meno confondibile con quello degli atenei, ossia un titolo di studio dotato di valore legale.

Non meno rilevanti, in quel contesto, le preoccupazioni di ordine economico, in uno scenario nel quale era arduo ipotizzare incrementi delle contribuzioni degli studenti e il sostegno finanziario pubblico – marginale in termini assoluti ma importante per raggiungere l’equilibrio economico – era in continuo calo, mentre le attività sanitarie dell’Ateneo, che contribuivano, così come oggi, in misura importante al sistema sanitario pubblico, generavano rilevanti perdite, facendo accumulare una significativa esposizione.

Ci si poneva innanzi un bivio: scegliere se assumere un atteggiamento “prudente”, difensivo, contenendo i costi ma anche le ambizioni; oppure perseguire una politica di espansione e riorganizzazione, accettando di investire, e dunque rischiare, per aprire prospettive nuove. Una scelta che non avrebbe avuto effetto limitato alla contingenza, all’arco temporale nel quale era ristretto lo sguardo del documento programmatico, ma avrebbe inevitabilmente condizionato in modo rilevante i futuri destini dell’Ateneo.

Si decise di intraprendere la via della crescita; non per inconsulta audacia, ma per motivata fiducia. Ed ora, nel momento in cui si avvia l’attuazione di un nuovo piano, è giusto allora soffermarsi a considerare dove ci ha condotti quello precedente, a quale punto siamo arrivati, anche per cercare una ragionevole risposta alla domanda circa la capacità dell’Ateneo di “farcela”, di realizzare i propri propositi.

Procedo per grandi temi, approfittando così anche per riferire di alcuni dati significativi dell’anno appena trascorso (più ampiamente rappresentati nel Bilancio di Missione).

Anzitutto la didattica, dal 2013/14 al 2022/23 gli studenti dei corsi di laurea (LT, LM e cicli unici) sono passati da 36.775 a 42.287, con un incremento del 15%, associato, e tengo a dirlo, a una riduzione del 21% degli studenti fuori corso, frutto di specifiche politiche di sostegno e tutoraggio.

Nello stesso periodo sono stati istituiti 20 nuovi corsi di laurea.

La ricerca. La situazione non era pienamente soddisfacente: la qualità era disomogenea, la rappresentazione dell’attività di ricerca non adeguata al valore dei contributi scientifici. Sono state pensate azioni di incentivazione e valorizzazione della ricerca, anche mediante un impiego di risorse proprie per premiare i contributi di maggior valore e finanziare la ricerca su temi interdisciplinari di specifico interesse dell’Ateneo. Fermo restando che, senza il talento dei ricercatori, nessuna progettualità organizzativa approda a un qualche risultato, indubbiamente i nostri docenti – e tra loro quelli, più di 40, che si collocano tra i primi 2% del ranking mondiale nelle loro discipline – possono esprimere il loro talento perché sono efficacemente sostenuti. I recenti dati rilasciati dai più autorevoli misuratori della ricerca scientifica (per esempio Times Higher Education) hanno registrato un importante miglioramento della classificazione del nostro Ateneo. Un altro indicatore, ossia la capacità di attrarre fondi per la ricerca, è cresciuto in modo significativo: nel 2022 il valore del “Portafoglio della ricerca”, ossia il volume totale dei progetti attivi nell’anno, era di 122 milioni di euro, per 1.316 progetti.

L’internazionalizzazione. Eravamo a buon punto, e siamo andati avanti: oggi i double degree sono 37 (di cui uno in medicina con un’università statunitense, cui si aggiungono tre percorsi LLM con università associati al corso di laurea magistrale in giurisprudenza); gli studenti internazionali immatricolati ai corsi di laurea sono raddoppiati negli ultimi cinque anni. La comunità degli studenti di nazionalità estera iscritti in Cattolica, considerati tutti gli anni di corso, di circa 3.000 unità, con 165 nazionalità rappresentate e siamo al sesto posto in Europa per numero di studenti in uscita.

Le opere. Didattica adeguata significa anche spazi adeguati. Nella sede di Milano la “conquista” è il caso di dire, della Caserma Garibaldi, che all’epoca della redazione del precedente piano appariva impresa incerta e ardimentosa, e dalla quale ho riferito le altalenanti vicende, ha compiuto un passo decisivo con l’avvio, nel 2023, dei lavori di ristrutturazione dell’ala Santa Valeria, che si prevede giungano a conclusione in tempo utile per rendere disponibili nuovi spazi a partire dal secondo semestre dell’a.a. 2024/25. L’intervento prevede la realizzazione di 36 aule per una capienza complessiva di circa 1.800 posti studente, una sala convegni da 150 posti, e spazi allestiti nelle parti comuni per lo studio e la socializzazione per gli studenti, per oltre 500 posti. Non è questo il solo caso, sebbene il più significativo; importanti investimenti hanno interessato tutte le sedi: a Brescia il nuovo campus di Mompiano, nella sede dell’ex seminario; a Cremona un campus completamente nuovo nell’ex monastero di Santa Monica; a Piacenza l’espansione delle aule, dei laboratori, dell’azienda agricola sperimentale. A Roma le iniziative sono così varie e continue che è impossibile riferirne. In tutte le sedi, poi, abbiamo programmato investimenti per accrescere l’offerta di posti nei collegi e nelle residenze.

La progettualità del precedente piano era stata fortemente condizionata dalle necessità poste dalle attività sanitarie dell’Università, con interventi significativi, che hanno profondamente mutato la situazione. Sono state dismesse una serie di attività marginali e non strategiche in diverse regioni d’Italia; il Policlinico Gemelli fino ad allora direttamente gestito dall’Università, è stato conferito in una Fondazione, il debito è stato ristrutturato e la gestione portata ad efficienza economica. E i risultati sono tangibili, non solo nel conto economico, ma nei riconoscimenti internazionali alle attività assistenziali del Policlinico e a quelle di ricerca e formazione della Facoltà (ed è eloquente non soltanto il numero degli studenti che partecipano al test, ma il fatto che i primi in graduatoria scelgono in larga misura la nostra Facoltà e le nostre scuole di specializzazione). Rimane, comunque, la necessità di vigilare; assicurare al servizio sanitario nazionale volumi di attività dell’ordine di 100.000 ricoveri l’anno e un milione di prestazioni ambulatoriali, alle condizioni attuali, è atto difficilmente giustificabile in termini di razionalità economica, ma che risponde allo spirito di missione e carità impresso dal nostro Fondatore. Tuttavia non è una situazione sostenibile nel tempo: si fatica a immaginare un operatore economico che si regga con i prezzi e le tariffe di oltre dieci anni fa (mentre i prezzi dell’energia, i meritati compensi al personale, i costi dei farmaci e delle attrezzature, non sono certamente rimasti fermi). L’Università tutta si è posta costantemente a sostegno della Fondazione Policlinico Gemelli e ha contribuito ai tanti riconoscimenti che il Policlinico e la Facoltà hanno meritato. Speriamo di non dover resistere da soli ancora a lungo e che si comprenda la necessità per il Policlinico di operare nel contesto di un quadro regolatorio ed economico che ne garantisca la continuità nel tempo ai livelli di qualità delle cure e della ricerca che oggi ha raggiunto.

Concludo il cenno retrospettivo ricordando che il Piano, nella sua originaria estensione, si sarebbe dovuto esaurire nell’anno 2019/2020, alla vigilia del centenario dalla fondazione dell’Università. Però è capitato qualcosa che, in effetti, non avevamo previsto: la pandemia. Questo non ci ha impedito di celebrare la ricorrenza nonostante l’impossibilità dell’incontro personale e la coltre di ansia e di commozione per le tante persone che stavano soffrendo; onorare il centenario appariva, anzi, una forma di resistenza e lo abbiamo fatto con modalità anche intense e suggestive. Ricordo la cerimonia di inaugurazione dell’anno 2020/21, il centesimo, celebrata in questa Aula Magna deserta, ma con il Presidente della Repubblica in collegamento diretto dal Quirinale.

L’impossibilità di svolgere la più parte delle molte iniziative che avevamo pensato per quell’anno di celebrazioni ci ha indotto a sostituire l’evento, in sé effimero con una testimonianza destinata a durare nel tempo. Si è così riscoperto l’antico costume della committenza, chiedendo a uno dei più importanti artisti contemporanei, Mimmo Paladino, di realizzare un’opera specificamente pensata per la nostra sede milanese. Dalla sensibilità e dallo studio dell’artista è nata una grande scultura bronzea dedicata a Sant’Ambrogio, densa di simboli, un autentico monumento, che, posta nel cortile d’onore tra l’abside della Basilica e il portale realizzato da Muzio quando gli antichi chiostri vennero convertiti a sede dell’Ateneo, unisce idealmente le radici antiche e la modernità del nostro Ateneo, attraverso la figura di Ambrogio.         

Soprattutto l’opera è simbolo di un momento di passaggio. Ambrogio e il suo cavallo sono raffigurati mentre stanno attraversando una porta; questa iconografia, ha detto il Maestro Paladino il giorno del disvelamento della statua, gli è parsa “naturale” e quasi “necessaria” in ragione del luogo, che è sede di un rito di trasformazione.

Anche l’Ateneo sta varcando l’ennesima soglia, tra ancoraggio e al passato e slancio verso i prossimi impegni. Non intendo ora dilungarmi nell’illustrare i singoli obiettivi e iniziative del nuovo piano perché sono esposti in documenti resi disponibili a chi sia interessato. Del resto non si tratta di un manifesto, ma un impegno concreto e programmatico verso, anzitutto, noi stessi.

C’è però un tema urgente e a mio avviso realmente strategico, che riguarda l’aggiornamento, forse il ripensamento, delle modalità di assolvimento della funzione formativa. Le università non fanno solo didattica, è noto; fanno ricerca, creano nuove conoscenze e interagiscono con la società diffondendo quelle conoscenze, nelle attività che chiamiamo di terza missione. Ma la funzione originaria, quella per cui è nata secoli fa come communitas necessariamente composta da due elementi, studenti e docenti, è quella che ne esprime l’essenza. La rigenerazione della società attraverso il passaggio del testimone del sapere è la ragione prima dell’università. E non si tratta di trasferire un sistema statico di nozioni; il costante richiamo alla costruzione di capacità critica come fine prioritario dell’insegnamento sottende proprio l’idea che nel trasmettere alle nuove generazioni il patrimonio delle conoscenze passate (o meglio gli strumenti per l’accesso a quelle conoscenze) insieme alla capacità di elaborarle con originalità di visione, si consegna al futuro la possibilità di creare nuovo sapere. Un esempio che tengo a indicare ai nostri studenti, della capacità di aprire nuovi percorsi della conoscenza è proprio nel magistero del prof. Calabresi, che ha insegnato l’uso delle categorie economiche per l’approccio alle questioni giuridiche.

Però, se un tempo consegnare agli studenti conoscenza e metodo poteva rappresentare uno strumentario sufficiente a costruire l’avvenire, individuale e collettivo, le evoluzioni in atto sul piano tecnologico, ambientale, economico e culturale ci interrogano profondamente e severamente.

Occorre, come dicevo all’inizio, comprendere le nuove aspirazioni dei nostri studenti, che non rappresentano un futuro da aspettare, ma un presente da ascoltare, e che hanno colto segnali forse ancora sfuggiti agli adulti.

Non v’è dubbio che l’offerta didattica andrà ricalibrata su modelli, qualitativi, contenutistici e tecnologici diversi. Ma quelle sono modalità, meri accidenti. Anzitutto bisogna comprendere in quali scenari vogliamo che questa Università si collochi.

Ho prima riferito dell’aumento della popolazione studentesca nel corso degli ultimi dieci anni. Ma tutte le curve di crescita prima o poi si flettono e dunque occorre domandarsi precocemente quale posizione si debba assumere nei prossimi anni, in un panorama segnato dalla polarizzazione tra atenei qualificati nella didattica e nella ricerca e offerte di prodotti formativi sempre più apertamente sensibili a obiettivi di mercato.

Ciò, però, richiederà di essere disposti a confrontarsi su una scala globale e dunque accettare, per esempio, che un numero crescente di studenti decida di completare il percorso di studio conseguendo una laurea magistrale all’estero; e per converso occorre predisporsi a elaborare corsi, soprattutto di laurea magistrale e master, capaci di attrarre studenti da altri atenei. Sarà inevitabile accettare di aprirsi alla circolazione degli studenti ponendo come unico possibile criterio discriminante, ma in assoluto doveroso, la serietà degli insegnamenti e delle valutazioni.

Lo sforzo più rilevante che a mio avviso si renderà necessario nei prossimi anni sarà dunque quello di ricalibrare nel suo complesso la proposta formativa, continuando nel cammino già efficacemente intrapreso, di elaborare percorsi di studio solidi, rigorosi e insieme moderni, di definire le soglie quantitative ottimali per assicurare il meglio a tutti gli studenti, e soprattutto di fare in modo che gli studenti trovino un senso al loro impegno.

Quest’ultimo è il dovere che ogni docente, prima e indipendentemente da qualsiasi enunciazione programmatica, avverte. Lo spiegano le parole proprio del nostro odierno laureato, il prof. Guido Calabresi, con le quali mi piace concludere questa relazione, perché nulla ad esse saprei aggiungere.

«Quando ho cominciato ad insegnare mi è piaciuto subito ma avevo un po’ d’incertezza, non ero sicuro che avessi tanto da trasmettere. Quando affermo questo molti ridono perché ho scritto tanto e sono abbastanza famoso, ma è stato proprio il rapporto con gli studenti che ha rafforzato il mio desiderio d’insegnare. Mi volevano bene, e io volevo bene a loro e avevo una capacità di farli fiorire, di fare una specie di appello ai loro ideali che fossero di sinistra o di destra non importa; era importante far capire loro che si può fare il bene comune, a prescindere da come uno la pensa².»

 

 

 


¹ J. Ortega Y Gasset, Missione dell’università, a cura di A. Savignano, Mimesis, Milano-Udine 2023, p. 35

² (corsivo aggiunto) https://lavocedinewyork.com/people/nuovo-mondo/2020/01/18/guido-calabresi-yale-e-larte-dinsegnare-ereditata-dalla-madre-maria-finzi-contini/

Il discorso di

Franco Anelli

Franco Anelli

Rettore Università Cattolica del Sacro Cuore

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