Benché i tempi della dialettica parlamentare siano oggi guardati per lo più con disprezzo da un’opinione pubblica abituata alla politica “istantanea” delle dichiarazioni e dei tweet, in questa settimana il Parlamento è in realtà tornato a essere quello che è stato per una parte importante della sua storia. Non tanto perché i grandi elettori abbiano fatto sentire la loro voce contro i vertici dei partiti, quanto perché l’emiciclo di Montecitorio è diventato ancora una volta – seppur con le limitazioni rese necessarie dalla pandemia – una sorta di grande teatro, in cui le forze politiche hanno avuto la possibilità di dare una rappresentazione rituale alle loro specifiche posizioni, alle trattative con le parti avverse, ai compromessi raggiunti con fatica, alle lacerazioni interne. E proprio sulle tavole di questo palcoscenico nazionale abbiamo assistito alla presa d’atto di ciò che, in fondo, ognuno sapeva in cuor suo fin dall’inizio, ma che nessun leader politico aveva avuto la forza o il coraggio di pronunciare ad alta voce.
Ciò che lo psicodramma di Montecitorio ha rappresentato in modo eclatante non è infatti la crisi di una o più leadership, anche se la tentazione di questi giorni è quella di stilare classifiche di “vincitori” e “vinti”. Le giornate dell’elezione del Presidente hanno per molti versi segnato la fine di ciò che giornalisticamente abbiamo definito “Seconda Repubblica”: quell’assetto politico sorto all’indomani delle elezioni del 1994, contrassegnato dalla sostanziale scomparsa di un centro politicamente autonomo e dalla contrapposizione tra due coalizioni, destinate a competere secondo una logica tendenzialmente bipolare. Il bipolarismo era già entrato profondamente in crisi con le elezioni del 2013, perché l’ingresso sulla scena del Movimento 5 Stelle aveva conferito al sistema un profilo tripolare, ulteriormente rafforzatosi nel 2018. Ma quell’inedito assetto tripolare non ha condotto, negli ultimi quattro anni, a un nuovo bipolarismo. Ha semplicemente contributo a demolire le coalizioni di “centro-destra” e di “centro-sinistra”, nonostante quelle categorie abbiano continuato a essere utilizzate dagli stessi leader politici. E se la ricollocazione dei pentastellati potrebbe assomigliare davvero a una sorta di riedizione del ‘vecchio’ “centro-sinistra” ulivista, la divaricazione rispetto alle dinamiche reali è invece apparsa clamorosa sul versante della coalizione di “centro-destra”: benché nel 2018 la Lega abbia formato una coalizione di governo con il Movimento 5 Stelle, separandosi dagli alleati storici, e benché dal 2021 sostenga insieme a Forza Italia quel governo Draghi di cui Fratelli d’Italia è di fatto l’unica opposizione, i leader di questi partiti non hanno esitato – contro ogni evidenza – a proclamare la salda unità della coalizione. Dimostrando una strabiliante ostinazione nel difendere una di quelle che Max Nordau avrebbe forse incluso tra le «menzogne convenzionali» del nostro tempo, Silvio Berlusconi, Matteo Salvini e Giorgia Meloni hanno così per quattro anni quasi ossessivamente ribadito l’unità del centro-destra, senza avere il coraggio di riconoscere pubblicamente ciò che era evidente a tutti e che lo psicodramma andato in scena a Montecitorio ha plasticamente messo in luce dinanzi all’opinione pubblica, dapprima con la rinuncia di Silvio Berlusconi a correre per il Colle, poi con la lacerazione tra Salvini e Meloni.
L’esito cui si è giunti nella serata di sabato potrebbe apparire come un segnale di stabilità del quadro politico, o quantomeno come una manifestazione del desiderio di continuità condiviso da larga parte della classe politica. In realtà, è ormai piuttosto evidente che le cose stanno molto diversamente. E i tredici mesi che ci attendono prima della fine naturale della legislatura saranno quantomeno turbolenti, minando la stabilità del governo Draghi e incidendo sui rapporti interni alle singole forze politiche. Come era facile prevedere, dopo l’elezione del Presidente, il quadro politico entrerà infatti in rapido movimento. Superata la boa della scelta del nuovo inquilino del Colle, tutte le forze politiche inizieranno a guardare alle elezioni del 2023. Qualcuno dei partiti che sostiene l’esecutivo cercherà di sfilarsi dalla maggioranza, o quantomeno tenterà di differenziare la propria posizione. Al tempo stesso, sfumata l’ipotesi di vederlo al Quirinale, Mario Draghi diventerà per le forze di centro un riferimento politico, di cui rilanciare il ruolo ben oltre la fine della legislatura. Non mancheranno inoltre rese dei conti all’interno delle singole formazioni. Ma è probabile che il vero oggetto della discussione, destinato a influire sulle geometrie politiche, sarà la revisione della legge elettorale. Sarà infatti in gran parte l’esito di quel dibattito a chiarire se, nell’interminabile “transizione” italiana, le coalizioni che abbiamo conosciuto tramonteranno definitivamente, o se conosceranno una nuova vita, magari in contenitori rivisitati. Trent’anni di esperienza dovrebbero comunque averci persuaso che i sistemi elettorali non posso davvero risolvere problemi dalle radici profonde. E, per quanto possano favorire (a certe condizioni) la “governabilità”, non sono in grado di sopperire né al deficit di cultura politica, né alla carenza di classe dirigente di cui il sistema politico italiano soffre da un trentennio e di cui lo spettacolo degli ultimi giorni ha in fondo fornito solo l’ennesima conferma.