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Dalla partita per il Quirinale lezioni contro l'obbligo del dire

31 gennaio 2022

Dalla partita per il Quirinale lezioni contro l'obbligo del dire

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Se la rielezione di Sergio Mattarella può essere considerata una vittoria del Parlamento queste elezioni hanno restituito un’immagine ancora più litigiosa e frammentata rispetto al passato della classe politica nazionale. Sembra quasi un paradosso, considerando che i 759 voti incassati fanno di Mattarella il secondo presidente più votato nella storia della Repubblica dopo Sandro Pertini. Il problema secondo Fausto Colombo, docente di Sociologia dei processi culturali e comunicativi dell’Università Cattolica, sta nei meccanismi con cui la politica comunica tutti i giorni secondo tempi e modi che poco hanno a che fare con i ritmi necessari per negoziare e prendere decisioni.

Durante le elezioni del Presidente della Repubblica i partiti hanno dato di sé un’immagine debole e contraddittoria. La loro crisi si riflette anche sul loro modo di comunicare e di governare i processi di comunicazione: cosa è mancato da questo punto di vista la scorsa settimana?

«Da queste elezioni ho ricavato l’impressione che emerga una immagine della politica ben peggiore di come il personale politico si sia comportato in realtà. I meccanismi che portano all’elezione di un Presidente della Repubblica sono molto complessi e hanno avuto luogo in un Parlamento frammentato, che invece è riuscito a concordare sul nome di Mattarella uscendo da una situazione molto complicata. L’immagine negativa dipende forse da quanto i media parlano di vittoria e sconfitta di questo o di quel leader: un effetto della mediatizzazione della politica. Tutto avviene in diretta, con una copertura minuto per minuto, le notizie si accavallano e questo genera confusione. Una settimana per eleggere il Presidente non è un tempo eccessivo. Questo non significa che la trasparenza sia inopportuna. Piuttosto vuol dire che un eccesso di comunicazione, soprattutto su ritualità che hanno i loro tempi come quella a cui abbiamo appena assistito, non giovi alla politica. Non tutto può essere trattato con la frenesia delle campagne elettorali».

I silenzi di Draghi e di Mattarella, soprattutto sui social, sono stati la cosa più efficace dal punto di vista comunicativo di questi giorni al contrario dei messaggi spesso confusionari e contraddittori dei leader di partito. Si può trarre una lezione da questo particolare?

«Per quello che abbiamo potuto vedere dall’esterno, quello di Draghi e Mattarella è stato un silenzio ossequioso e istituzionale. I meccanismi di cui parlavo prima invece hanno creato in molti leader l’obbligo del dire. Ma se si rendono pubblici tutti i passaggi negoziali li si complica sempre di più. Se si rivela ogni passaggio di ogni possibile scelta mentre la si sta compiendo attraverso una negoziazione si ingenera molta confusione. Diverse dichiarazioni di questi giorni infatti sono state poi smentite. E condurre trattative nel mezzo di leaks che provengono dagli stessi soggetti impegnati nel processo diventa via via più difficile. La comunicazione politica che fruiamo ogni giorno attraverso media e social è sempre più simile nei toni a una campagna elettorale mentre i passaggi istituzionali non sono così. È la mediatizzazione della politica che ha sostituito la mediazione tradizionale. All’inizio delle democrazie i media consentivano ai cittadini di avvicinarsi grazie all’informazione alle decisioni della politica ma essa continuava a svolgersi in altre sedi. Con la mediatizzazione invece è la politica a seguire le necessità dell’informazione pubblica che però è sempre più complessa e ha tempi istantanei. E la politica non è fatta così: serve tempo per prendere visione dei fatti, confrontarli con le proprie credenze, operare delle scelte».

Il presidente Mattarella aveva categoricamente escluso un suo secondo mandato ma alla fine, con senso di responsabilità, ha accettato il nuovo incarico. Questa rielezione, tuttavia, può minare la credibilità delle parole del Presidente della Repubblica?

«La risposta è difficile. Il Presidente è stato invocato dal parlamento e ha risposto a questa chiamata venendo meno a una promessa fatta a sé stesso, rinunciando a una stagione della vita che tutti ci auguriamo di vivere in serenità. Mattarella si era ritirato rinunciando a qualsiasi ricandidatura e invece il Parlamento gli ha chiesto a stragrande maggioranza di restare. Lui ha accettato per senso dello Stato. Credo che credibilità e influenza di Mattarella siano fondate anche e soprattutto sul suo uso morigerato della parola. Parla in modo molto misurato, con linguaggio istituzionale ma non rinunciando a citare i valori della Repubblica e della Costituzione. In Cattolica abbiamo potuto di recente apprezzare per ben due volte il suo tono e la capacità di rappresentare il meglio della Repubblica. E forse la lezione sta facendo effetto: mi è parso di notare un miglioramento dei toni complessivi del dibattito, che salvo eccezioni sono stati abbastanza degni di un passaggio così complesso. Il problema è stato l’eccesso di comunicazione. Una settimana su questi ritmi diventa insostenibile».

Sia in Italia che all’estero l’attuale classe politica, salvo rare eccezioni, viene categorizzata come egoista e poco capace. Il Financial Times ha parlato di disastro evitato all’ultimo minuto. Su quali azioni si deve concentrare ora l’agenda della politica, e la sua comunicazione, per recuperare credibilità?

«Credo che le notizie sulla morte della politica siano esagerate. È un momento in cui la cittadinanza sembra poco attenta alla politica politicante. E i social media danno l’impressione, che il dibattito sia fatto solo di grandi levate di scudi e attacchi personali, di cieca fede in una fazione o nell’altra. Ma forse chi segue solamente i social media non ha idea di cosa accade veramente nel Paese. La disaffezione della cittadinanza che si manifesta per esempio nella sempre minore partecipazione alle elezioni, quella sì genera una crisi del sistema politico: il problema non è dunque solo il cattivo comportamento del personale politico ma anche il contrario. Un grande spirito di partecipazione migliora la qualità dei nostri politici perché la base da cui provengono e vengono selezionati selezionato ampia. Viceversa riducendo la base della piramide rendiamo più difficile la selezione di personale adeguato, motivato, competente. Una classe dirigente non è una élite separata dal popolo, anzi: proviene da esso. Ho diversi studenti impegnati nei rispettivi consigli comunali e provenienti dalle estrazioni più differenti. Tra di loro vedo molta differenza non tra destra e sinistra ma tra chi sperimenta l’amministrazione della cosa pubblica e chi non fa esperienze concrete. Invece, lo ribadisco, i social non sono una palestra di politica anche perché occupati da posizioni poco utili quando occorre prendere decisioni importanti per tutta la comunità».

Un articolo di

Michele Nardi

Michele Nardi

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