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Lo stato di salute della democrazia non è buono

15 settembre 2024

Lo stato di salute della democrazia non è buono

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Il 15 settembre di ogni anno viene celebrata la Giornata internazionale della democrazia. Proclamata l’8 novembre 2007 dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, la Giornata rappresenta un’opportunità per valutare lo stato della democrazia nel mondo, i cui valori fondamentali sono quelli espressi dalla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani e dal Patto Internazionale sui Diritti Civili e Politici. La democrazia è una componente fondamentale per il rispetto dei diritti umani e la pace. Dal 2001, il 21 settembre di ogni anno viene invece celebrata la Giornata internazionale della pace, che è stata istituita dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel 1981, con l’obiettivo di rafforzare la volontà di pace tra le nazioni e i popoli. In occasione delle celebrazioni di queste due Giornate importanti, Antonio Campati, ricercatore di Filosofia politica nella Facoltà di Scienze politiche e sociali dell’Università Cattolica, fa il punto sullo stato di salute delle democrazie oggi nel mondo.


Com’è noto, lo stato di salute della democrazia non è buono e le cause vanno rintracciate in una serie di problemi di natura interna e internazionale. Fino a qualche anno fa, le questioni domestiche erano prevalenti e preoccupavano maggiormente gli studiosi: il rendimento democratico, l’astensionismo elettorale, le forme di partecipazione antagoniste erano (e sono) i segnali di un malessere capace di mettere a repentaglio il buon funzionamento dei singoli Stati nazionali. Soprattutto dopo l’invasione russa in Ucraina, la crisi della democrazia è assurta appieno tra gli affari internazionali. Non che prima non lo fosse, ma erano ancora radicati alcuni effetti della sbornia post-89 che aveva alimentato l’illusione che il numero delle democrazie sarebbe solo cresciuto e che graduali aggiustamenti le avrebbero rese indistruttibili.

Oggi, ogni residuo di speranza rispetto a queste ipotesi è svanito.

Occasioni come la Giornata internazionale della democrazia, promossa dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite, che si celebra ogni anno il 15 settembre, rappresenta quindi un appuntamento sempre più rilevante perché è l’occasione per fare il punto sul numero di democrazie nel mondo (grazie al lavoro di agenzie internazionali come Freedom House, V-Dem e il global report di Ipsos), ma soprattutto per mantenere alta l’attenzione dell’opinione pubblica sul fatto che la democrazia è minacciata, seppur in forme e intensità diverse.

Sul punto non si devono fare concessioni alla retorica, né alla partigianeria, perché rilevare le difficoltà dei sistemi democratici nel mondo, e quindi anche nel nostro paese, non significa che tutte le democrazie hanno gli stessi problemi e che tutte sono sull’orlo del collasso. Naturalmente, la ricerca scientifica è molto attenta a non compiere simili errori, ma le prese di posizione nel dibattito pubblico (soprattutto sui social) ricorrono spesso a semplificazioni, come è d’altronde inevitabile che sia. In tal senso, la ricerca scientifica e l’impegno divulgativo dovrebbero fare uno sforzo di dialogo virtuoso: ne è un esempio il recente libro di Hans Keman dal titolo emblematico Democracies in Peril? Waves of Backsliding (Routledge, 2024), che presenta una rigorosa analisi sulla democrazia attraverso uno schema teorico chiaro e accessibile anche ai non addetti ai lavori.

Ma la democrazia, come noto, non è semplicemente un insieme di procedure da rispettare. Deve fare i conti anche con principi e valori. In tal senso, il suo rapporto con la pace è tra i più complessi e affascinanti. Non casualmente, il 21 settembre, pochi giorni dopo la ricorrenza del 15 settembre, proclamata nel 2007, si celebra la Giornata internazionale della pace, istituita sempre dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite diversi anni prima, nel lontano 1981. Di questi tempi, l’importanza del binomio pace e democrazia è sotto gli occhi di tutti. Alcuni studiosi e commentatori hanno rispolverato le antiche teorie secondo cui i regimi democratici sono maggiormente propensi, rispetto ad altri, a garantire la pace. Ma a posizioni simili hanno replicato altri studiosi che hanno invece fatto l’elenco dei paesi democratici forse restii a muovere la guerra contro altre democrazie, ma non timorosi quando devono promuoverla verso non-democrazie. Il discorso è piuttosto complesso, ma vale la pena accennare almeno a un punto, che tenta di collegare la capacità delle democrazie di cooperare tra di loro per promuovere la pace.

Nelle riflessioni di questi anni turbolenti è quasi completamente scomparsa l’ipotesi di creare o riformare istituzioni internazionali di pace. Per alcuni, anche solo evocare una simile prospettiva, è un modo ingenuo di approcciarsi alle vicende internazionali. E le ragioni, in effetti, non mancano: dalla crisi pandemica alla guerra in Ucraina, per restare solo alle vicende più recenti, quelle istituzioni internazionali verso le quali in molti avevano riposto grandi aspettative non hanno assolto appieno ai loro doveri. Quelle più direttamente coinvolte nella costruzione della pace, sono apparse prive di un reale slancio e della capacità di incidere sui processi geopolitici. È ovvio che l’urgenza non è quella di promuovere un qualche progetto utopico incapace di tenere nel giusto conto le dinamiche di potenza tra i diversi paesi, i pur legittimi interessi nazionali e gli antagonismi che possono crearsi tra i membri delle classi politiche. L’obiettivo semmai è tornare a ragionare a partire dall’idea che, se si vuole la pace, occorre costruire innanzitutto istituzioni di pace, dove quest’ultima non è un orpello retorico da evocare, ma davvero la meta verso cui tendere gli sforzi. Concretamente significa regolare tali istituzioni attraverso un’autorità sussidiaria e poliarchica (come suggerisce Caritas in Veritate, n. 57), capace di poter dialogare, con le dovute cautele, anche con i regimi ibridi, o parzialmente tali.

In breve, i tentativi di far trovare pace alla democrazia – per usare un gioco di parole – passano soprattutto attraverso istituzioni internazionali autorevoli ed élite all’altezza delle sfide del tempo. E grazie anche a un’opinione pubblica convinta che per preservare la pace e la democrazia occorrano sforzi, talvolta sacrifici, certamente insufficienti per cancellare del tutto i rischi della guerra e i difetti del regime democratico, ma comunque indispensabili per difendere appieno le nostre libertà.

 


Immagine di freepik

Un articolo di

Antonio Campati

Antonio Campati

Ricercatore di Filosofia politica - Facoltà di Scienze politiche e sociali, Università Cattolica

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