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Matteo Scanni, un vuoto che lascia un pieno

03 febbraio 2022

Matteo Scanni, un vuoto che lascia un pieno

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Nel vortice che ha seguito la morte di Matteo Scanni, qualche giorno fa c’è stato il tempo di proiettare, nell’aula della scuola di giornalismo dell’Università Cattolica, un documentario sulla morte di Maria Grazia Cutuli che io, Matteo e Laura Silvia Battaglia realizzammo nel 2008. Durante la proiezione guardavo gli studenti e, mentre mi chiedevo che effetto facesse su di loro quel lavoro di 13 anni prima, mi sono venuti in mente vent’anni di amicizia e di lavoro insieme a lui. Mentre le immagini passavano, la musica si confondeva anche con tutti i ricordi dei momenti passati insieme durante quella lavorazione. Che lui non fosse lì sembrava così irreale.

Non si passa indenni dalla perdita di una persona come Matteo. Era uno di quelli rari, capaci di ascoltare e curiosi di capire chi avesse di fronte. Cercava ponti, connessioni culturali e umane con l’interlocutore, arrivando a gesti di enorme generosità, snocciolati come se fossero atti insignificanti. Non avevi la telecamera? Te la prestava, come si presta una sciarpa. Dovevi fare la patente della moto? Non dovevi neanche chiederglielo, arrivava con il suo BMW Gs del 1984 e lo metteva a tua disposizione. Se si fidava di te dal punto di vista professionale ti passava i lavori consegnandoti i progetti chiavi in mano: tu partivi per la Cina o per la Franciacorta, cambiava poco, perché quello che facevi, se lo facevi con serietà e seguendo il tuo modo di intendere il lavoro, andava bene così.

La scomparsa di Matteo lascia molto più di una ferita. Era uno che ha saputo dimostrare l’amore per la vita e per gli altri in modo discreto e con i fatti, senza sbrodolature. Un creatore di cultura, un visionario con un grande gusto. Innamorato della musica con cui siamo cresciuti entrambi. Una persona forte e mai prepotente. Uno che vedeva il talento negli altri, non ne provava mai invidia e lo tirava fuori in maniera semplice, coinvolgendoti nel fare le cose. Era pieno di contenuti. Ha insegnato cos’è il vero giornalismo a centinaia di studenti. Ha fatto delle bellissime inchieste, dei documentari forti, molto più importanti di quello che lui, così abituato a non darsi arie, potesse pensare.

Ogni volta rimanevo a bocca aperta. Con O’ Sistema ha portato l’attenzione sul mondo della camorra prima che Saviano lo elevasse ad archetipo narrativo. Ha fatto un’inchiesta sui militari che morivano per l’uranio impoverito, L’Italia chiamò, uno sulla corruzione che ha permeato la costruzione dei parcheggi sotterranei a Milano. Siamo andati insieme al Quirinale a prendere un premio per il documentario su Maria Grazia Cutuli. E centomila altre cose. Ha vissuto il giornalismo come vocazione. Si è finto manovale per fare un’inchiesta sul caporalato nei cantieri di City Life. Per questo ho sempre pensato che l’amico più coraggioso e pazzo ce l’avevo io.

Era guidato dal bisogno di fare cose belle e importanti. Regalava libri stupendi, amava i fritti, i formaggi, il vino. Una volta è venuto in serata da Milano a Barolo, dove suonavo a un festival col mio gruppo. Ha portato due telecamere, ha fatto le riprese del concerto tutto da solo, l’ha montato e non me lo ha mai dato, perché   - credo - non era soddisfatto del risultato. Ha fondato DIG, il festival di giornalismo investigativo e ci ha invitato gente come Teho Teardo e Vinicio Capossela a suonare. Ha fondato la rivista Maize, portandola in diversi punti del mondo. Adesso mi mancano la sua risata, il suo assurdo e pericoloso stakanovismo, la faccia piena di gratitudine di quando gli dicevo “adesso piantala di lavorare ed esci con me”.

Mi mancano la sua intelligenza sobria e la sua profondità. Ma sono tutte cose che chi l’ha conosciuto si porta dentro e che saranno sempre lì, perché la scomparsa di Matteo Scanni non lascia un vuoto. Lascia un pieno: la sua energia inesauribile è incredibilmente rimasta nell’aria e chiede che qualcuno ne raccolga il testimone, accettando il suo invito silenzioso a muoversi, a uscire, a darsi da fare. Perché la vita è molto più bella se si fanno lavori interessanti, possibilmente sulle note veloci di un disco punk, davanti a una bottiglia di vino.

Un articolo di

Armando Trivellini

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