La moda e il design sono i più formidabili ambasciatori del nostro Paese. Chi avesse avuto qualche dubbio, lunedì 28 ottobre, al campus di Milano dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, è stato ancora una volta smentito. Per celebrare il suo primo mese di attività, l’Istituto di Cultura Araba, inaugurato recentemente negli spazi dell’Ateneo di largo Gemelli, ha voluto promuovere una riflessione su quello per cui il capoluogo lombardo è ammirato nel mondo: i suoi stilisti, le sue maison, le archistar e i progettisti.
L’incontro è stato un modo per rendere omaggio anche alla città che ospita la nuova istituzione culturale, che secondo le parole del suo direttore Wael Farouq «non vuole esse solo un istituto arabo a Milano, ma di Milano». Soprattutto, però, è stata una piccola prova - sottolineata dalla presenza della principessa Sheikha Jawaher Bint Mohammed Al Qasimi, moglie dell’emiro di Sharjah - del ruolo che la cultura italiana può avere nelle relazioni diplomatiche.
Che gli oggetti immaginati da stilisti e designer siano una parte importante del patrimonio culturale di un Paese è stato il cuore del discorso di Marco Sammicheli, direttore del Museo del Design Italiano e Maria Teresa Zanola, docente di Linguistica Francese presso l'Università Cattolica e direttrice scientifica dell'Osservatorio di Terminologie e Politiche Linguistiche.
Come è stato osservato, abiti, accessori, complementi d’arredo «hanno un significato che trascende lo scopo funzionale per il quale sono stati realizzati»; sono sempre anche il compendio dei «comportamenti di una società»; esprimono, dunque, una visione della realtà. In quanto «sistemi di segni», sono parte integrante della cultura di un popolo e come tali possono esercitare quella soft power che si riconosce ad esempio alle opere artistiche, letterarie, filosofiche. Sono in grado, al pari di quelle, infatti, di stabilire punti di contatto tra civiltà diverse, riescono a creare insomma quei «ponti», attraverso i quali «le persone si incontrano e dialogando imparano a diventare amiche» come ha detto il direttore di sede dell’Ateneo, Mario Gatti, ribadendo la ragione profonda della collaborazione fra l’Università Cattolica e l’Istituto di Cultura Araba.
Una partnership che vuole aprire in Italia, «una finestra sulla ricchezza della cultura araba» destinata ad essere seguita da altre in diversi Paesi occidentali, secondo quanto ha dichiarato Ahmed Al Ameri, Ceo di Book Authority Sharjah, l’istituzione che nell’emirato è responsabile dell’organizzazione di una fiera del libro internazionale tra le più importanti al mondo.
Gli oggetti del design e della moda, grazie al loro potere evocativo capace di trasmettere «fiducia e bellezza», sono in grado di aprire dei varchi attraverso i quali può passare dell’altro. Anche, ad esempio, un corso sull’intercultura, come quello che ha presentato don Ambrogio Pisoni, docente di Teologia presso l’Università Cattolica: un ciclo di nove incontri che partirà a novembre e si concluderà a marzo, per superare, quel multiculturalismo che in diversi paesi occidentali «ha mostrato i suoi limiti», ha rimarcato il sacerdote e teologo.
Che il mondo occidentale e il mondo arabo lungo la loro millenaria storia si siano oltre che fecondati pacificamente spesso anche scontrati, lo ha ricordato proprio il film “Khorfakkan”, scritto dallo stesso emiro Sheikh Sultan Al Qasimi, e diretto da Ben Mole e Maurice Sweeney. Proiettato dopo la consegna dei certificati di riconoscimento per i migliori contributi alle attività dell’Istituto di Cultura Araba, il lungometraggio racconta un episodio storico: i due assalti compiuti nella prima metà del ‘500 dei portoghesi alla guarnigione e città di Khorfakkan, affacciata sulla costa del golfo di Oman. Nel primo gli arabi vengono sopraffatti, nel secondo, invece, riescono a respingere gli invasori. Ciò che capovolge la situazione è proprio il possesso di oggetti, che in questo caso però nulla hanno a che vedere con la diplomazia: le armi da fuoco. Tuttavia, non sono questi strumenti ma la pietà che gli arabi mostrano nei confronti dei prigionieri a garantire una vittoria morale che si rivelerà anche strategica, dimostrando che, persino nella battaglia ad avere l’ultima parola è ancora un modo di comportarsi, una visione del mondo e dei rapporti tra le persone, cioè la cultura di un popolo.