Era appena il 26 maggio 2020 quando Twitter segnalava per la prima volta ai propri utenti che due tweet di Donald Trump sul voto per corrispondenza erano fuorvianti e falsi, invitandoli a un fact-checking su fonti autorevoli come CNN e Washington Post; tre giorni dopo sarebbe stata la volta di un’altra segnalazione per un tweet presidenziale che inneggiava alla violenza dopo i disordini scatenati dalla brutale uccisione di George Floyd. Il nuovo corso della piattaforma cinguettante si inseriva nella policy adottata appena un mese prima per fronteggiare le fake news sul coronavirus, ma la reazione del Presidente non si era fatta attendere: accusando la piattaforma di fare “attivismo politico” e di adottare una “linea editoriale”, Trump ingaggiava una battaglia per riformare la cd. Section 230 (una disposizione della legislazione USA in materia di Internet) e rendere le piattaforme di social media responsabili dei contenuti pubblicati nel quadro di eventuali contenziosi, come fossero editori anziché semplici service providers.
Ma non si trattava della prima occasione di scontro: nel caso Knight Institute v. Trump, intentato da un’associazione attiva presso la Columbia University, si affermava che l’account @realDonaldTrump rappresentasse un “public forum” ai sensi del noto Primo Emendamento della Costituzione USA, che tutela, inter alia, la libertà di stampa e di parola (interpretata dai giudici nel doppio significato di “right to speak” e “right to hear” – diritto di parola e di ascolto). Per questa ragione i giudici di primo e secondo grado avevano qualificato come illegale il blocco degli utenti che rispondevano criticamente ai post del Presidente. In altre parole non era vero, come avevano cercato di argomentare gli avvocati difensori, che la piattaforma fosse adoperata ad uso personale: nel profilo era chiaramente indicato che si trattasse del Presidente USA; inoltre, alcuni tweet erano stati adoperati come strumenti di governo per effettuare nomine e archiviati come Official Records (sentenze del 23 maggio 2018 e del 9 luglio 2019 – l’appello di Trump alla Corte Suprema avverso tali pronunce è ancora pendente).
Anche Facebook, che aveva inizialmente mantenuto una posizione ‘neutrale’, si è progressivamente adeguata al nuovo corso. Ancora a gennaio 2020, mentre aggiornava le regole per le inserzioni, aveva annunciato di non voler intervenire sulle pubblicità elettorali verificandone la veridicità. Ma dopo un crescendo di pressioni culminate nella campagna Stop Hate for Profit, con il boicottaggio di aziende come Starbucks, Coca Cola ecc., si è deciso per un rapido revirement. Da un lato si è provveduto all’approvazione di un Comitato di esperti indipendenti incaricati di decidere “cosa rimuovere, cosa lasciare e perché” dei contenuti online (l’Oversight Board: un esperimento di giustizia privata potenzialmente applicabile… a due miliardi di persone!); dall’altro si è specificato, nel rapporto Coordinated Inauthentic Behavior del luglio 2020, di aver bloccato account e pagine orbitanti intorno QAnon e le teorie suprematiste, annunciando altresì misure preventive per la campagna elettorale: un silenzio elettorale nell’ultima settimana prima del voto con la sospensione degli annunci elettorali; la segnalazione di post tesi a delegittimare i risultati elettorali; e la rimozione di contenuti miranti a scoraggiare il voto di segmenti della società americana.
Nihil sub sole novum? Le tensioni legate alla net neutrality delle piattaforme social non rappresentano dunque un problema nuovo, ma la scarica elettrica che le ha attraversate nel corso degli ultimi giorni non ha precedenti. In un crescendo inimmaginabile di eventi, il 6 gennaio Trump ha incitato con una serie di tweet – prontamente segnalati dalla piattaforma – i propri sostenitori a bloccare i lavori del Congresso e del Senato riuniti per proclamare la vittoria di Biden. Ne è seguito il noto assalto da parte di gruppi estremisti al Campidoglio, con i tragici decessi e l’irredimibile colpo al prestigio statunitense.