NEWS | Hate speech

Prevenire l’hate speech si può

29 marzo 2021

Prevenire l’hate speech si può

Condividi su:

“Ho imparato che le persone possono dimenticare ciò che hai detto, le persone possono dimenticare ciò che hai fatto, ma le persone non dimenticheranno mai come le hai fatte sentire”. Questa frase di Maya Angelou coglie l’essenza di tutte le azioni preventive e di cura in atto oggi per contrastare il fenomeno dell’hate speech.

Si sono confrontati sul tema diversi esperti durante il seminario “Discorsi d’odio online” lo scorso 26 marzo, introdotti da Stefano Pasta, assegnista di ricerca in Università Cattolica.
Il webinar è stato promosso da Mediavox, Osservatorio sull’odio online, e dal Centro di ricerca Relazioni interculturali dell’Università Cattolica con l’intervento dei partner Retinopera e CEI con il suo Ufficio nazionale per le comunicazioni sociali.

Di fronte al presupposto che l’ambiente digitale facilita le diverse forme d’odio, si fa strada la proposta di coinvolgere tutti i cittadini che vogliano costruire un’ecologia della rete, dove, come ha suggerito nel suo saluto iniziale il prorettore Antonella Sciarrone Alibrandi, «si respiri un’aria buona e ci si possa esprimere in modo positivo». L’Università affronta questo fenomeno da diversi punti di vista, secondo il prorettore: «C’è un tema di azione, intervento e comunicazione, un tema di formazione che passa attraverso insegnanti delle scuole di tutti gli ordini e grado, e poi un tema di ricerca perchè questi sono ambiti relativamente nuovi che coinvolgono diverse aree disciplinari».

Che cos’è il discorso d’odio online? Si tratta di un insieme di parole e immagini che si esprimono anche quando non si usano epiteti e insulti, che prendono di mira una persona quasi sempre fragile o parte di un gruppo che si vuole ferire. «Questa azione fa male agli spettatori e alla società: quando comunichiamo odio e disprezzo pubblicamente, stiamo invitando gli altri a condividere il discorso d’odio e così lo legittimiamo - ha spiegato Milena Santerini, direttrice del Centro di ricerca sulle Relazioni interculturali e autrice del libro appena pubblicato da Raffaele Cortina Editore La mente ostile. Forme dell’odio contemporaneo -. Facendolo online lo comunichiamo ampiamente, normalizziamo l’offesa e induciamo gli altri a condividerla». 

Ognuno dovrebbe sentirsi responsabile del danno provocato dall’hate speech e lo può fare in diversi modi. Uno di questi è la “contro narrazione”, di cui ha parlato nel suo saluto anche Vincenzo Corrado, direttore dell’Ufficio Comunicazioni sociali della CEI: dando rilevanza ad argomenti diversi si toglie autorità al discorso d’odio. 

«Non si parla solo di “contro informazione”, perché il problema non è solo spiegare che quell’informazione è falsa e negativa, ma tutti siamo immersi in uno storytelling che deve essere diverso - ha continuato Santerini -. La prevenzione può essere fatta a due livelli: consapevolezza critica e piano emozionale. Sul primo abbiamo la maggior parte degli interventi perché ci siamo mossi con i giovani e gli adolescenti che vanno maggiormente protetti e ai quali abbiamo trasmesso il messaggio “attenzione, stai facendo del male”. Infatti, gli adolescenti spesso mandano messaggi pericolosi senza accorgersene. Per quanto riguarda il secondo livello emozionale si opera di più sull’adulto che pratica l’hate speech al quale non basta spiegare che sta facendo del male perché magari è arrabbiato, frustrato, in ansia per il lavoro in caso di disoccupazione…». 

Stefano Pasta nel suo libro Razzismi 2.0: analisi socio-educativa dell’odio online ha parlato di “contro narrazione” insieme ad un’altra modalità, ovvero la possibilità di offrire allo spettatore risposte preconfezionate ai pregiudizi quando li incontra. Il ricercatore ha raccontato di un caso studio di cinquanta conversazioni via social con ragazzi tra 14 e 21 anni che avevano partecipato a performance d’odio invitando ad esempio allo stupro, o al lancio di bottiglie molotov verso gruppi etnici discriminati.

«Ragazzi che avevano agito forme esplicite di hate speech, messi davanti alla domanda “ma ti rendi conto di cosa hai agito?”, hanno risposto comunemente che non dovevano essere presi sul serio… “va beh era solo un commento, va beh sorry” - ha spiegato Pasta -. Una nota positiva, però, è stata la possibilità di interagire con i ragazzi che si sono stupiti di essere presi in considerazione da un ricercatore, e trovare, quindi, uno spazio educativo per proporre loro di prendersi sul serio, riflettendo sulle conseguenze delle proprie azioni». 

L’educazione alla cittadinanza digitale, in particolare per i nativi digitali, oggi è fondamentale perché i giovani siano consapevoli che ciò che postano resta per sempre nel web e che le conseguenze di parole e immagini d’odio si ripercuotono non solo sulla vittima ma indirettamente anche su tutto il pubblico online. 

Un altro tema affrontato dal dibattito è stato quello della disinformazione online legato al fact checking. «Nella cassetta degli attrezzi è bene inserire la verifica di una notizia - ha dichiarato Michele Kettmajer, presidente dell’Istituto di ricerca e sviluppo sull’informazione MediaCivici -. Misinformation sui social e malinformazione (quando un’informazione vera viene contestualizzata in un ambiente diverso e crea narrazione ostile) sono, infatti, due fenomeni da combattere facendo attenzione ai contenuti fabbricati per definizione per fare disinformazione ingannevole. La ricerca della verità passa dalla condivisione, dagli strumenti di lettura critica delle informazioni, dallo stare nella legalità. 

Una narrazione alternativa ai discorsi d’odio è possibile. Come ha osservato Matteo Mancini del gruppo di ricerca di Mediavox «la pagina facebook dell’Osservatorio vede la community che condivide e replica in maniera consapevole. In un anno di emergenza è stato raggiunto un pubblico di 5000 follower e circa 1300 post, indici di un lavoro quotidiano che condivide contenuti positivi e affida a categorie specifiche ogni post pubblicato. Ad avere un maggior numero di condivisioni sono stati quelli di emulazione degli eroi del nostro tempo e di speranza per il futuro».

«La rete resta un posto bello - ha dichiarato infine Rosy Russo, presidente dell’associazione Parole O_Stili - perché rappresenta una ricchezza. Occorre però essere attenti, anche come adulti non possiamo non sapere. Si pensi che nell’anno della pandemia solo il 13% dei genitori ha dato limitazioni ai figli nell’uso di giochi e ad alcuni social network perché non aveva tempo di seguirli. La parola chiave è “relazione”. Ricordiamo che non c’è cura, non c’è pace senza relazione».
 

Un articolo di

Emanuela Gazzotti

Condividi su:

Newsletter

Scegli che cosa ti interessa
e resta aggiornato

Iscriviti