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Quando la letteratura guarda alla montagna

11 dicembre 2022

Quando la letteratura guarda alla montagna

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Articolo pubblicato sul numero 5/2022 della Rivista Vita e Pensiero

 

A fronte di un catalogo della letteratura di montagna da sempre quanto mai folto, è rimasto per lungo tempo esile quello della presenza della montagna in letteratura, sia pur puntellato, nei suoi esiti, da cime quali il Monte Ventoso di Petrarca, il Buzzati delle Dolomiti, il Vassalli di Le due chiese o il Rigoni Stern dell’altopiano di Asiago, con quest’ultimo in particolare spesso modello di molte narrazioni fiorite nell’ultimo ventennio. Una fioritura da far sorgere il sospetto di una moda. Di qui anche la difficoltà di darne piena ragione nel ricordarne i titoli.

Curiosando tra date, titoli e autori di questo incremento narrativo, spicca ovviamente il posto di rilievo occupato da Mauro Corona, che scrive del mondo in cui è nato e vive, e che già nel secolo scorso coi volumi di racconti rivisitava «alberi, animali, gente e l’eterno cammino», richiamando proprio Rigoni Stern (modalità ripresa da L’uomo che guardava la montagna di Massimo Calvi, San Paolo, 2022). Un’opera, quella di Corona, che conosce nel 2005 il salto nel romanzo con L’ombra del bastone (Mondadori), cui sono seguite numerose altre opere come sia narrazione breve sia romanzi, ove si intrecciano percorsi ora più simili e ora differenti, per le quali si può parlare di storie di “valori” che possono vivere di per sé o possono tradursi in storie di famiglia, come accaduto con La ballata della donna ertana (Mondadori, 2011) nella quale fa capolino, fra l’altro, il tema della diga già presente nello Sgorlon di L’ultima valle del 1987. Una operosità nella quale mi piace isolare La fine del mondo storto (Mondadori, 2010) che, dietro la qualifica di romanzo, si propone in realtà con struttura da “diario degli ultimi giorni”, avvolto dall’immagine apocalittica d’un terribile inverno che trova il mondo privo di petrolio, carbone ed energia elettrica, cacciando gli uomini in una situazione impensata o – se talora immaginata – subito rimossa, col lento esaurirsi di ogni risorsa che svela il vero

volto dei valori addizionali quali denaro, ricchezze, investimenti e così via. E dove a mostrarsi salvifici sono proprio i valori della tradizione trasmessi dalla Montagna Madre e, con essi, il valore della manualità e la conoscenza della natura.

Come romanzo, però, Corona era stato preceduto nel 2004 da Il mangiatore di pietre di Davide Longo, di Carmagnola (Torino), ai piedi di quelle Alpi ambientazione d’una storia che ruota attorno a un omicidio, ove la vittima è un passeur che ha tradito la tradizione dei passatori di montagna trasmessagli dai vecchi, e che si traduce anche in un romanzo sul trasmigrare (lineare o adulterato) tra generazioni di tradizioni e soprattutto valori, modi di essere e vivere d’una terra. Un romanzo di fi gure che parlano soprattutto con gli sguardi. E di silenzi, ricco di sospensioni, che richiama il Biamonti scrittore di confine e narratore di passeurs in Le parole la notte. Luoghi, quelli della Valle d’Aosta, nei quali Longo è tornato con La vita paga il sabato (Einaudi, 2022), quarto episodio della serie del solitario, inquieto, malinconico ex commissario Corso Bramard; un romanzo giallo, dove il protagonista “vive” pienamente l’ambientazione nella quale è stato sbalzato: «Un paese di montagna chiuso come un’ostrica», ma d’una montagna in cui «l’aria ha un suo equilibrio tra freddo e pulito, denso e leggero, presente e presente. Una coerenza che Bramard trova solo in montagna ed è il motivo per cui la montagna è il suo posto».

Ciò che non è invece per il protagonista dei romanzi di Antonio Manzini, il vicequestore Rocco Schiavone trasferito per punizione da Roma ad Aosta, città che non ama, e che, in Pista nera (Sellerio, 2013) e L’eremita (Sellerio, 2017), vive come un «ennesimo colpo dell’avversa fortuna che sembra divertirsi con lui» un delitto ai 1400 metri; tanto da decidere che «Sopra gli ottocento metri non è delitto, è il nuovo articolo del codice penale di Rocco Schiavone. Quindi non andiamo», vedendo già «le sue Clarks inzaccherate come stracci per il pavimento».

Ma quella dei ritorni è una strada percorsa anche da Paolo Malaguti, che nel 2009 ha esordito con Sul Grappa dopo la vittoria (Santi Quaranta), con un procedere da Le stagioni di Giacomo di Rigoni Stern, ossia un ragazzo che il padre invia sul Monte Grappa a recuperare rame, piombo, cassette di viveri; un viaggio di crescita a fronte dei due volti del Grapo: una natura che riprende vita, ma che porta ancora in sé i segni del dolore come campo di battaglia. Un mondo al quale Malaguti è tornato con Il Moro della Cima (Einaudi, 2022), nel quale convergono Prima guerra mondiale, centrale già in Prima dell’alba, e il Grapo, nel quale «raccoglie storie e voci del passato per restituirle con scrittura attenta e viva attraverso la fi gura del Moro Frun, personaggio tridimensionale innamorato della montagna, che ci ricorda il Tönle Bintarn di Mario Rigoni Stern, con le sue andate e ritorni, il suo amore per la terra madre e il dolore per ogni confine e inutile conflitto»; voci che «parlano dei cambiamenti della montagna veneta, lavorata, trasformata e a volte sfigurata dalla mano umana» (Premio Rigoni Stern 2022).

Una convergenza, quella tra Montagna e Prima guerra mondiale, che ha conosciuto una prospettiva davvero singolare in Fiore di roccia di Ilaria Tuti (Longanesi, 2020), in cui l’io narrante della fiera e orgogliosa Agata Primus fa rivivere la storia, vera ma a lungo dimenticata, delle portatrici carniche che, dal fondovalle e camminando per ore nella neve che arriva fi no alle ginocchia e cercando di sfuggire ai cecchini austriaci, raggiungevano a piedi la linea del fronte fra le cime, caricando le proprie gerle «fi no a farle traboccare di viveri, medicinali, munizioni», aggrappandosi «agli speroni con tutte le nostre forze, proprio come fanno le stelle alpine, i “fiori di roccia”».

Di tutt’altro segno altre figure femminili. Come le protagoniste di Acquanera di Valentina D’Urbano (Garzanti, 2022), nel quale, come già in Il rumore dei tuoi passi, ci si muove in una sorta di terra di nessuno, un paesino arroccato sulle montagne del Nord-est a precipizio su un lago «nero che non ha vita» ma che «apparteneva a tutti e tutti gli appartenevano» e dove già i nomi dei luoghi (Roccachiara e Acquanera) dicono d’un romanzo nel segno di forti contrasti, ribadito da lemmi pregnanti, quali “ombra”, “buio”, “grigio”, “pioggia”, “nebbia” e soprattutto “freddo” a sottolineare le dimensioni interiori della “mancanza” e della “preoccupazione”, avvolgendo i personaggi in un paesaggio selvaggio, cupo rispecchiamento della condizione esistenziale.

O come Fenìsia C. che in La valle delle donne lupo di Laura Pariani (Einaudi, 2011) si concede al registratore di Laura, la «sciura» lombarda che raccoglie «le tradizioni, le leggende della montagna, le storie di una volta», attraversando memorialmente gli anni tra il 1928 e il 2007 di “Paese Piccolo”, un microuniverso nelle valli dell’alto Piemonte del cui cimitero la sua famiglia è custode da sempre. Una memoria che racconta innanzitutto la graduale morte d’una cultura, andata scemando con la perdita di sentimento e anima da parte della gente; per la povertà da un lato, e le illusioni della modernità dall’altro. Un mondo storicamente chiuso, accidentalmente sfiorato nella sua quotidianità dalla Grande Storia solo per sottrarre beni e vite, e nel quale è «sfortuna nascere femmine» e il dolore è l’unica verità.

Ci sono poi narrazioni montane “di crescita”, come nel caso di Matteo Righetto, che, partito da Bacchiglione blues (Perdisapop, 2011) come «la nuova voce del pulp italiano», con La pelle dell’orso (Guanda, 2013) lascia i fiumi della pianura per le Dolomiti, e con Apri gli occhi (Tea, 2016) per il personaggio-Dio che è lo Schenon del Latemar; un romanzo nel quale al dodicenne Domenico trascinato dal padre Pietro in una personalissima caccia all’orso El Diàol subentra il sedicenne Giulio che i genitori Luigi e Francesca portano idealmente con loro scalando il Latemar, per mantenere fede alla promessa di tornare in quel luogo ove hanno vissuto insieme l’ultimo intenso momento di felicità con quel figlio della cui morte si sentono colpevoli.

E dove la Croce sullo Schenon si fa immagine d’un personale calvario di redenzione. Un mondo che Righetto va gradualmente sfumando nell’avventurosa epopea dei De Boer in Trilogia della Patria (Mondadori), col terzo romanzo, La terra promessa (2019), che vede Jole e Sergio De Boer lasciar per le Americhe la terra di frontiera di L’anima della frontiera (2017) e L’ultima patria (2018) nella quale una «manciata di uomini e donne che vivevano in casupole inerpicate sui versanti vertiginosi della riva destra del fiume», la Brenta, a oriente dell’altopiano di Asiago, riuscendo a sopravvivere solo grazie al contrabbando di tabacco.

Una epopea, quella di Righetto, che nelle mani di Matteo Melchiorre diviene, con Il Duca (Einaudi, 2022), un romanzo definito via via storico, epico, d’avventura, che vede protagonista il solitario ultimo erede dei Cimamonte, chiamato scherzosamente “il Duca”, che nella villa di famiglia che giganteggia su Vallorgàna, un piccolo e isolato paese di montagna, si dedica a ricerche erudite tra vecchie carte di famiglia e lavori manuali, ma dove tutto muta quando il boscaiolo Nelso gli annuncia che nei boschi della Val Fonda un anziano possidente gli sta rubando 600 quintali di legname. Con quanto ne consegue di scontri per il risveglio della smania di possesso e di potere; con, in mezzo, il personaggio della Natura non proprio disposta a lasciarsi piegare. Un mondo da Melchiorre già visitato in La via di Schenèr. Un’esplorazione storica nelle Alpi (Marsilio, 2016), la strettissima e pericolosa via che consentiva commerci e incontri tra la valle dolomitica di Primiero e il Feltrino.

Differente invece la “conversione” di Paolo Cognetti: perché “di vita”, con riflessi anche sui suoi personaggi, in particolare dopo il “quaderno di montagna” Il ragazzo selvatico (Terre di mezzo, 2013) che lo vede scegliere la montagna come luogo di vita. Come accade a Pietro in Le otto montagne (Einaudi, 2016), giunto alle pendici del Monte Rosa trascinato soprattutto dal padre, e dove stringe una virile amicizia con Bruno, giovane montanaro. Anche se sono diversi, perché a differenza di Bruno l’inquieto Pietro ha un istinto ramingo che lo porta ad allontanarsi da queste montagne per cercarne altre cime in Nepal e poi in Tibet, lontano dal padre, salvo farvi ritorno dopo la morte del genitore recuperando «il rapporto con il padre per interposta persona, attraverso Bruno, in una triangolazione affettiva che Cognetti riesce a rendere con una sobrietà e una misura esemplari» (C. Taglietti). E come accade anche ai personaggi di La felicità del lupo (Einaudi, 2021), tra i quali Fausto, scrittore fallito che lascia Milano per rifugiarsi nel paese alpino di Fontana Fredda, dove trova lavoro come cuoco, e l’amore per le montagne si colora anche di riflessi romantici.

Soprattutto Alpi, come si vede; ma non solo. Perché anche l’Appennino ha una sua narrazione d’autore. A partire dalla Garfagnana di Vincenzo Pardini, col suo microcosmo popolato di animali reali e magici e abitato da dolenti figure umane parche di parole ma ricche di memoria e sguardi che denotano voglie e rancori. Un mondo primitivo, insieme innocente e crudele, ingenuo e tragico, dolce e aspro, dalle rabbiose esplosioni e da un erotismo ora panico ora esasperato e ossessivo, anche intellettualmente straziato, con quel senso di ancestralità che comporta un tono di epicità per uomini e per animali, ma sempre con screziature di malinconia, e che la prosa riesce assai spesso a rendere nelle sue varie manifestazioni, si esprima in racconti (Il viaggio dell’orsa, Fandango, 2011) o in romanzi, come Grande secolo d’oro e di dolore (Il Saggiatore, 2017) che si snoda senza soluzione di continuità come racconto di vite nelle quali la storia sembra entrare solo per apportare dolore, e la modernità fa sentire i protagonisti violentati nei loro valori.

Una Storia che a Bosconero, paese chiuso tra i monti della Garfagnana, col bosco che si fa personificato coprotagonista del romanzo di Aldo Simeone, Per chi è la notte (Fazi, 2019), ha la faccia crudele delle divise naziste; e dove grazie alla curiosità del dodicenne Francesco Pacifico, che in quel paese si sente «assediato», il racconto prende un’atmosfera dai tratti insieme noir e fiabeschi.

Altra invece l’invasione di chi, dalla città, alla montagna guarda con occhi cupidi da vacanziere. Prospettive narrative che s’incontrano nell’Appennino tosco-emiliano nel quale Francesco Guccini e Loriano Macchiavelli ambientano le trame gialle delle due serie con protagonisti il maresciallo Benedetto Santovito e il tenace ispettore della forestale Marco Gherardini detto “Poiana”. Dove, lasciata a Macchiavelli la costruzione gialla, Guccini avoca a sé la componente antropologica, denunciando anche con feroce ironia chiunque attenti ai valori più autentici della tradizione, come quei «villeggianti che hanno paura anche ad andare a fare una passeggiata nel bosco» e quei certi amministratori che sono andati «instaurando una nuova usanza per richiamare villeggianti e intrattenerli con la tradizionale ospitalità montanara che prevedeva ogni giorno cibi genuini e rispettosi delle tradizioni locali», ma pure «mercatino dell’antiquariato, puttanate da pochi soldi, cianfrusaglie».

Né mancano anche singole realtà montane: dal “non luogo da terra di nessuno” di Andrea Vitali in Il metodo del dottor Fonseca (Einaudi, 2020), all’Etna di Massimo Maugeri in Il sangue della Montagna (La nave di Teseo, 2022), a un Aspromonte malavitoso nei vari romanzi di Gioacchino Criaco (Feltrinelli). E, ancora, con Paolo Rumiz o Enrico Brizzi, e persino col recupero degli “scritti di montagna” La strada, la bisaccia e la pipa di Manara Valgimigli (Lindau, 2022).

Ma proprio in questo contesto emerge la personalità di Erri De Luca, la cui passione per la montagna – che lo vede «salire» o «passeggiare in solitaria», e non «scalare», anche sull’Himalaya con gli amici Nives Meroi e Romano Benet – confessa essere «un lascito di un padre alpino della Julia». Di qui le due facce dei suoi libri: una scrittura narrativa che impregna i racconti di viaggio (Sulla traccia di Nives) e una natura montana che dialoga con quanto diviene “ambiente” per la presenza umana, come in Il peso della farfalla (Feltrinelli, 2009), per De Luca «un racconto sul declino fisico di due esemplari della biologia in montagna, un uomo e un camoscio. La differenza tra le due specie sta nel modo in cui affrontano la vicinanza della fine». Ma soprattutto con Impossibile (Feltrinelli, 2019), dove una narrazione costruita come un verbale di polizia – nel quale un magistrato e un ex rivoluzionario alpinista si confrontano sulla morte d’un vecchio compagno di militanza del protagonista divenuto pentito, senza altri testimoni se non la silenziosa montagna – si traduce in una riflessione sulla giustizia, ma pure sull’attenzione e concentrazione che la montagna richiede a chi la vuol “vivere”.

 

 


Photo by Federico Bottos on Unsplash

Un articolo di

Ermanno Paccagnini

Ermanno Paccagnini

Professore emerito di Letteratura italiana contemporanea - Università Cattolica

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