Il primo grande evento televisivo dell'anno, per quel che riguarda le serie, è sicuramente la trasposizione de "La Storia" di Elsa Morante. Il primo episodio della fiction diretta da Francesca Archibugi con Jasmine Trinca, andata in onda su Rai1 lunedì 8 gennaio in prima serata, ha sbancato anche dal punto di vista degli ascolti con 4.459.000 telespettatori pari a uno share del 23,5% battendo in modo netto la concorrenza del Grande Fratello che nella stessa fascia si è fermato a 2.562.000 telespettatori (share del 18,4%).
Un successo che riportato al centro del dibattito pubblico il romanzo della Morante, pubblicato nel 1974 da Einaudi e che, al tempo, suscitò un acceso scontro culturale che coinvolse grandi della letteratura come Italo Calvino e Pier Paolo Pasolini, solo per citarne alcuni. Ripercorriamo quel dibattito con il professor Giuseppe Lupo, docente di Letteratura italiana contemporanea del nostro Ateneo.
Un romanzo come La Storia di Elsa Morante, pubblicato nel 1974 e salutato come una delle opere letterarie più controverse del secolo scorso, resta ancora oggi una tanto strana quanto mirabile anomalia dentro un panorama che di eccezionale aveva ben poco. Lo è innanzitutto perché il Novecento ha quasi sempre mancato l’appuntamento con il grande affresco narrativo, per quanto ci avesse provato con tutte le forze, magari riuscendo a fornire una specie di affresco all’incontrario, un qualcosa che sovvertisse le regole tradizionali dell’epica – racconto corale, antropologico, sociale, comunitario – e si presentasse sotto le forme più disparate di una cattedrale dell’io (Il male oscuro di Giuseppe Berto, 1964) o di un’indagine su ciò che non esiste (Il quinto evangelio di Mario Pomilio, 1975). Entrambi questi libri sono senza dubbio magnifiche cattedrali narrative, ma di una specie spiccatamente novecentesca: uno segue l’ipertrofismo autobiografico innestandolo sul tronco del magistero freudiano (quella di Berto), l’altro fonda la propria credibilità sul rigore filologico applicato alla menzogna (quello di Pomilio).
Con La Storia della Morante, invece, si torna all’epica pura: microstoria nella macrostoria, destino di un individuo come destino di un’epoca, resa oggettiva di un racconto interiore. È probabile che siano stati proprio questi ingredienti, così in controtendenza rispetto al tempo in cui il libro arrivò sui banchi delle librerie – metà anni Settanta, quando ormai da più di un decennio era stata messa irreversibilmente in atto la decostruzione delle strutture romanzesche da parte dello sperimentalismo –, a decretare sia le polemiche che il successo. Da un lato, infatti, Einaudi mise in piedi una macchina promozionale che non ha eguali nel percorso dell’editoria italiana tanto da arrivare vendere un milione di copie già solo nel primo anno, complice anche l’espediente che, per volontà dell’autrice, il romanzo uscisse direttamente in edizione tascabile, a costi contenuti. Dall’altro – e qui davvero si manifestano i segni della contraddizione ideologica – il libro ricevette severe critiche dall’establishment intellettuale, di orientamento tanto cattolico quanto marxista: Asor Rosa, Luperini, Siciliano, Pasolini, Calvino, Pampaloni. C’era qualcosa che non convinceva la stragrande maggioranza dei recensori e poco conta che a sollevare dubbi fossero gli ambienti vicini alla sigla dello Struzzo o gli alfieri della neoavanguardia, perché il discorso, da qualsiasi parte lo si leggesse, finiva pur sempre per tornare allo stesso punto: la trama eccessivamente patetica e piagnucolosa, troppo scontato l’obiettivo di commuovere.
Il paradosso sta qui. La copertina della prima edizione reca una foto di Robert Capa che rievoca la guerra civile spagnola. Dunque si tratta di un’immagine allusivamente eroica, sottratta però ad arte da quell’eroicità masticata secondo il gusto neorealista che era tipico del secondo dopoguerra. Punto di forza e di debolezza stava proprio nell’avere liberato i personaggi dalla retorica resistenziale, consegnando la loro vicenda alla nuda verità dei fatti, che erano e restano avvinti al dramma dell’io sconfitto dalla Storia, «uno scandalo che dura da diecimila anni», recita il sottotitolo della prima edizione. E non sarà un caso che sia stato Calvino, il più acuto di tutti, a riconoscere che il vero motivo per cui quest’opera sia stata tanto denigrata è quella che egli chiama «la tecnica letteraria della commozione». L’intellighenzia della Sinistra italiana, per la prima volta dalla fine della guerra e in un’epoca ancora contrassegnata dalla sua egemonia culturale, era chiamata a confrontarsi con la paura delle lacrime, con la rassegnazione dell’uomo di fronte alla tragedia del male, con i fantasmi dell’emotività ma senza viverli come sconfitta. Non li comprese e questo fu il suo limite.
Photo RaiPlay