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Società quotate, in crescita la trasparenza sulla sostenibilità

08 novembre 2022

Società quotate, in crescita la trasparenza sulla sostenibilità

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Il consiglio di amministrazione è l’organo centrale nella direzione strategica delle società quotate. Vi è adeguata trasparenza sulla sua attività? I consiglieri ricevono informazioni tempestive e adeguate che consentono loro di svolgere bene la propria funzione? Quanto e come sono pagati gli amministratori delegati? La struttura della loro remunerazione va bene oppure sono pagati troppo o magari con un pacchetto strutturato male? E ancora: le società si stanno adeguando alle normative europee in materia di sostenibilità? Diffondono informazioni sulle remunerazioni dei dipendenti e dei dirigenti donna? O sui consumi energetici o sulle emissioni di gas serra? Le risposte a queste e altre domande si possono trovare nella seconda edizione del Rapporto Fin-Gov sulla corporate governance illustrato dagli autori Massimo Belcredi e Stefano Bozzi, entrambi docenti di Finanza aziendale all’Università Cattolica, nell’ambito del convegno “Corporate governance, sostenibilità, engagement”, che si è tenuto lunedì 7 novembre.

Il Rapporto Fin-Gov - i cui risultati sono stati approfonditi da due discussant d’eccezione Lucia Calvosa, presidente Comitato Italiano per la Corporate Governance, presidente Eni e ordinario di Diritto commerciale all’Università di Pisa, e Chiara Mosca, commissario Consob, Vice-Chair OECD Corporate Governance Committee e associato di Diritto commerciale all’Università Bocconi -  analizza in dettaglio temi che vanno dall’indipendenza degli amministratori alle remunerazioni del management, dal dialogo con gli investitori alla sostenibilità. 

Governance e indipendenza dei presidenti

«La qualità della corporate governance è in genere buona tra le società grandi, soprattutto se a proprieta diffusa (widely held) o pubbliche, mentre è più formale nelle società piccole, specie se a controllo familiare», precisa il professor Belcredi che è anche direttore del centro di ricerca del Centro di ricerche finanziarie sulla corporate governance, all’interno delle cui attività di ricerca scientifica rientra il Rapporto Fin-Gov. Un tema cruciale è la valutazione dell’indipendenza degli amministratori. «Il nuovo Codice di Corporate Governance favorisce lo sviluppo di soluzioni “su misura” per la singola società, soprattutto in base alla sua dimensione e alla struttura del suo azionariato. Tale logica è condivisibile ma non priva di controindicazioni: ad esempio, ha favorito tra le società una proliferazione di modelli di valutazione dell’indipendenza, che rende difficile la verifica dall’esterno agli investitori istituzionali». Questo è un problema che rischia di far perdere autorevolezza all’intero impianto del Codice.
Cartina di tornasole di tale problema è il tema del “presidente indipendente”. «I nostri dati mostrano che il nuovo codice di corporate governance, entrato in vigore l’anno scorso, ha allentato i parametri di valutazione dell’indipendenza, consentendo a 28 società (su 211) di giudicare come indipendenti i propri presidenti, anche se destinatari di compensi ingenti (259 mila € in media, ma si arriva fino a 700 mila €)», continua il professor Belcredi.

Le politiche di dialogo con gli azionisti

Tra le novità della seconda edizione del Rapporto Fin-Gov vi è la prima analisi delle politiche di dialogo tra emittenti e investitori, oggetto anche di una “querelle” tra le associazioni di categoria degli emittenti (Assonime) e degli investitori istituzionali (Assogestioni). «Circa metà delle società quotate (100) hanno varato politiche di dialogo che consentono l’iniziativa anche agli investitori - chiarisce il professor Belcredi -. Parecchie società (45%) hanno anzi manifestato disponibilità a partecipare, in modalità di “ascolto”, a iniziative in cui sono gli investitori a presentare i propri punti di vista (iniziative cosiddette “one-way”, proposte da Assogestioni ma su cui Assonime ha espresso perplessità). Oggi tali forme di engagement devono però passare il filtro degli amministratori “responsabili”, che hanno il potere di decidere se e come dare seguito alle richieste pervenute. Il tempo dirà se tali opportunità di dialogo verranno effettivamente sfruttate dagli investitori interessati a comunicazioni più dirette con i consiglieri, e se le società daranno seguito alle aperture formulate nelle policies, coinvolgendo nel dialogo un numero maggiore di consiglieri o addirittura l’intero CdA».
 

 

I compensi degli amministratori delegati

Altro tema importante è quello delle politiche di remunerazione su cui il recepimento della Direttiva europea sui diritti degli azionisti (Shareholder Rights Directive II, SHRDII) ha prodotto un forte miglioramento sul fronte della trasparenza. Dati numerici “completi” (almeno a target e a cap) sulla composizione del pacchetto di remunerazione degli Amministratori Delegati (ad) sono forniti da circa il 60% degli emittenti.
Le informazioni sulla struttura dei piani, tuttavia, non sono sempre chiarissime, soprattutto tra le società minori. Sarebbe opportuna la fornitura di un riassunto tabellare, oggi diffuso solo tra le società grandi, in sostituzione o in aggiunta a lunghe descrizioni che lasciano, non di rado, dubbi sull’effettiva struttura del pacchetto. Quanto alle remunerazioni, dopo l’annus horribilis del 2020, nel 2021 l’unica classe di amministratori che ha registrato una dinamica significativa è quella degli amministratori delegati (ad), i cui compensi monetari sono aumentati da 946 a 1.104 mila € (+17%), soprattutto a causa di un forte rimbalzo dei bonus, risaliti a 420 mila € (dopo che erano crollati nel 2020 da 374 a 239 mila Euro). «L’incremento è da interpretare, almeno in parte, come un rimbalzo, in un anno buono (il 2021) dopo uno eccezionalmente negativo, in cui gli ad avevano spesso rinunciato volontariamente a una quota significativa dei compensi (fatto eccezionale e con pochi precedenti nella storia)», spiega il professor Bozzi. «Anche il 2022 sarà verosimilmente negativo per molte società, quindi non è possibile interpretare tale aumento come l’inizio di un trend. La remunerazione media degli ad è passata da 25 a 28 volte quella media dei dipendenti, un dato molto lontano dai livelli record registrati da certe società americane. Molte società hanno introdotto compensi variabili legati a obiettivi di sostenibilità (ESG), che raggiungono in media il 18% del totale.

Il gender pay gap

Il Rapporto Fin-Gov analizza anche la trasparenza delle società in materia di uguaglianza di genere nonché le percentuali di presenza femminile tra i dipendenti e tra i dirigenti (molto bassa) e la differenza di remunerazione tra uomini e donne (gender pay gap), sempre distinto tra dipendenti e dirigenti. Informazioni sulla ripartizione del personale tra uomini e donne sono diffuse - volontariamente - da quasi tutte le 154 società che pubblicano la Dichiarazione di carattere Non Finanziario (DNF) ai sensi del d.lgs. 254/2016», osserva il professor Bozzi. La presenza femminile, molto influenzata dal settore (è massima nel settore finanziario, nel tessile/abbigliamento e nell’healthcare), è pari a circa il 40% del totale ma si dimezza (18%) a livello dirigenziale. Circa un terzo degli emittenti ha maggioranza di dipendenti donne; solo 6 hanno maggioranza di dirigenti donne. Un terzo delle società forniscono informazioni anche sul gender pay gap. Le donne percepiscono in media l’89% della remunerazione dei colleghi maschi, a livello generale, e l’86% tra i dirigenti. Tra i dipendenti, la differenza più elevata di remunerazione si riscontra in una società del settore automotive; in tre società la remunerazione femminile è lievemente più alta (fino al 5%) di quella maschile. A livello dirigenziale, la remunerazione femminile è più alta in 8 società. Insomma, la strada verso un’effettiva parità è ancora lunga.

La trasparenza sull’ecosostenibilità

Un’ultima nota, ma non per importanza, va ai temi di sostenibilità. Da quest’anno - ai sensi del Regolamento Ue Tassonomia - le società non finanziarie devono rendere nota la quota di fatturato, investimenti e costi operativi associata ad attività “ammissibili” alla qualifica di ecosostenibilità. Dal Rapporto Fin-Gov emerge che quasi metà degli emittenti (tra cui tutte le società appartenenti a determinati settori) comunica una quota di fatturato “ammissibile” pari a 0; inoltre, si osservano spesso numeri divergenti tra società con business paragonabile. Infine, molte società piccole paiono avere incontrato difficoltà nell’adeguamento alla nuova regolamentazione. L’impressione è quella di un cantiere aperto: la progressiva entrata in vigore della normativa europea ha semplificato, da un lato, gli adempimenti ma, dall’altro, ha prodotto un’informativa non facilmente interpretabile.
Quasi tutte le società riportano informazioni in materia di consumi energetici. Sovente (58%) è comunicata anche la quota di consumi alimentata da fonti rinnovabili, pari al 18% in media. Il ricorso a fonti rinnovabili sale tra le società grandi (26% contro 13% tra le piccole) e nel settore finanziario (28% contro 17% negli altri settori).

 

Un articolo di

Redazione

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