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Sovraffollamento, pandemia e reinserimento: la situazione delle carceri in Italia

06 aprile 2022

Sovraffollamento, pandemia e reinserimento: la situazione delle carceri in Italia

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C’è un luogo comune da sfatare: che il detenuto in carcere si trovi in un Grand Hotel dove fa la bella vita. Lo hanno capito le studentesse del collegio Paolo VI confrontandosi il 31 marzo con il tema del “Sistema delle carceri in Italia: crisi da sovraffollamento, rieducazione, impatto della pandemia”, nell’ambito del Percorso dei Collegi in Campus col quotidiano Avvenire “Aprire la mente alla realtà e alla diversità”, coordinato da Edoardo Grossule, con l’intervento di esperti qualificati.

Tanti gli spunti messi in campo dalle studentesse: la stagione delle riforme non ha reso migliore il carcere, il maggior ricorso alla carcerazione l’ha reso più sovraffollato, le risorse non bastano, la burocrazia è aumentata, mancano spazi, lavoro, sostegno psicologico, viene meno il concetto che la pena sia finalizzata al reinserimento sociale, si vive in condizioni di disumanità, aumentano i suicidi, cresce l’aggressività verso gli agenti di Polizia penitenziaria. A tutto ciò si aggiunge la pandemia che ha notevolmente peggiorato la situazione. Non per niente già nel 2013 con la sentenza Torreggiani la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo aveva condannato l'Italia per la violazione dell'art 3 della Convenzione, ritenendo che le condizioni di vita dei detenuti fossero inumane e degradanti.

Un articolo di

Agostino Picicco

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A scanso di equivoci Danilo Paolini, giornalista di Avvenire, ha fatto presente che le problematiche del sistema carcerario non vengono risolte dalle varie riforme normative ma richiedono un cambio culturale. «Sicurezza della collettività e dignità dei detenuti devono camminare insieme. Un eccesso di carcerazione e la mentalità di arrestare e ‘buttare via la chiave’ non aumentano la sicurezza collettiva».

Rispetto a qualche decennio fa, in cui c’era stata qualche apertura circa il sistema carcerario, oggi si è fatto qualche passo indietro. Sui luoghi comuni da sfatare relativamente al carcere (che paradossalmente risultava anche luogo in cui il coronavirus non sarebbe mai entrato) l’ex magistrato Paolo Borgna ha affermato che occorre smontare i fatti che li alimentano e dare loro una lettura e una spiegazione diversa: «Un caso che fa gridare allo scandalo la collettività è quello di detenuti che commettono efferati delitti in occasione dei permessi premio. Ma i permessi premio sono funzionali alla rieducazione del reo, e statisticamente sono solo una piccola quantità quelli che non raggiungono l’obiettivo. Occorre considerare che una persona in carcere, dopo venti o trent’anni può essere una persona diversa. La pena ‘tende’ alla rieducazione, è una opportunità offerta alla persona. Anche papa Francesco dice che non ci può essere una pena senza orizzonte. E in questo aiuta il fatto che il carcere comunichi con la città in cui è inserito, offra lavoro, non sia luogo di segregazione totale. Il magistrato nella sua indipendenza non può essere irresponsabile: non si incarcera la gente su base indiziaria».


Sui disagi dei carcerati il cappellano del carcere di Opera, don Francesco Palumbo, ha invitato a pensare a tutti i detenuti che vivono quotidianamente anche gli atti più intimi con persone di età, usi, abitudini, culture diverse, risultando dei perfetti sconosciuti. Accanto ai detenuti, poi vi sono tutte quelle persone che per servizio vivono all’interno del carcere e ai quali è affidata la rieducazione: agenti, psicologi, medici. «Il carcere è una specie di cantina della società, dove si ‘nascondono’ gli elementi pericolosi, senza supportarli con competenze adeguate. Si pensi ai detenuti psichiatrici, per i quali il carcere non è il luogo più adatto».

L’invito finale ai numerosi studenti presenti è rivolto da Paolo Borgna, ritornando sulla provocazione iniziale: «Chi pensa che in carcere si faccia la bella vita, non c’è mai stato. Tocca a voi studenti iniziare una battaglia culturale nuova sul sistema carcerario e sanzionatorio».

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