Ci sono anche loro, le nuove tecnologie genetiche, a dare un contributo nella battaglia contro la siccità e la carenza di materie prime, di cui è complice anche il conflitto in Ucraina. Una combinazione che tocca da vicino il nostro sistema alimentare. Ma quale apporto può dare un genetista per affrontare il problema? Ne parliamo con Adriano Marocco, professore ordinario di Genetica agraria all’Università Cattolica del Sacro Cuore, direttore del Dipartimento di Scienze delle Produzioni vegetali sostenibili (DIPROVES) e direttore del Centro di Ricerca sulla Biodiversità e sul Dna antico (BioDNA).
Professor Marocco, i suoi studi riguardano soprattutto il mais e il sorgo. Qual è la loro resistenza alla siccità?
«Sono due specie con una elevata efficienza nell’uso dell’acqua, ma richiedono la disponibilità di acqua irrigua. Il sorgo, in particolare, ha la capacità di sopportare lunghi o intermittenti periodi di carenza idrica ed elevate temperature, caratteristiche che ne fanno una coltura di elezione per gli ambienti aridi».
Come genetisti su cosa concentrate la vostra attenzione?
«È ormai da tempo che si studiano le strategie messe in atto dalle piante nei confronti di stress di tipo ambientale. In particolare, l’attenzione è posta negli ultimi anni all’acclimatamento alla siccità, in conseguenza della riduzione della disponibilità di riserve d’acqua e delle piogge, nonché alle temperature estreme che conducono alla disidratazione delle piante».
In tal senso da quale sfida siete attesi negli anni a venire?
«Come genetisti dobbiamo sfruttare tutte le informazioni a disposizione per produrre piante che abbiano una maggiore efficienza nell’uso dell’acqua, che siano più tolleranti al secco, e che siano capaci di produrre in condizioni in cui l’acqua è meno abbondante. In sintesi: produrre di più con minori risorse disponibili. Questa è la sfida del futuro».
Come la affrontate?
«Il gap di produzione fra colture irrigue e non irrigue può essere colmato con il miglioramento genetico per la tolleranza alla siccità. Ancora oggi è usato un approccio di miglioramento genetico convenzionale, in cui si selezionano le varietà e gli ibridi prestando attenzione ai caratteri legati all’efficienza dell’uso dell’acqua e alla resa in condizioni di siccità. Si cerca di combinare queste diverse caratteristiche all’interno di nuove varietà o ibridi adatti a condizioni di ridotta disponibilità di acqua».
Ci sono in natura specie più resistenti allo stress idrico?
«In natura ci sono piante che sopravvivono alla disidratazione come le Briofite, le piante “resurrezione” delle regioni desertiche quali, Selaginella e Craterostigma. Le piante coltivate hanno variabilità genetica per l’acclimatamento alla siccità, in particolare quelle originarie di ambienti aridi come frumento, sorgo, girasole ma anche mais».
E fra i cereali come si comporta il mais?
«Per il mais vale un paradosso»
Ce lo può spiegare?
«Il mais ha un consumo idrico molto elevato: alle nostre latitudini un ettaro produce 20 tonnellate di sostanza secca, di cui la metà come granella, consumando però tra i 5 e i 6mila metri cubi di acqua. D’altro canto, se si valuta l’efficienza dell’uso dell’acqua, per questo cereale è molto elevata rispetto, ad esempio, al frumento o all’erba medica. Il paradosso risiede nel fatto che il mais è una pianta con elevatissima resa, che produce biomassa con elevata efficienza, ma il problema è che la maggior parte dell’acqua deve essere fornita con l’irrigazione e quindi ha un costo in termini economici e ambientali».
L’obiettivo, dunque, è di produrre ibridi resistenti alla carenza d’acqua?
«Lo studio delle interazioni pianta-acqua è un importante e complesso argomento della biologia vegetale in rapido sviluppo. La soluzione non è semplice perché le colture richiedono un adeguato rifornimento di acqua per raggiungere elevate rese. In mais, per ottenere ibridi adatti agli ambienti siccitosi si considerano tre variabili: la quantità di acqua assorbita dalle piante, l’efficienza con cui l’acqua è convertita in biomassa e la resa in granella».
Dunque, un lavoro di incrocio e selezione?
«È un approccio classico, che si fa a partire dagli anni Cinquanta del secolo scorso e che nel mais ha consentito di ottenere guadagni di resa superiori al 200%. È un lavoro lungo, che richiede molte prove in ambienti siccitosi, ma che oggi può contare sulle opportunità di analisi rapide fatte con remote-sensing e nuovi metodi per le analisi delle radici. Poi c’è un approccio, che sta già dando risultati importanti, che concerne la genomica, la proteomica e metabolomica. Si identificano i geni e quindi i processi biochimici coinvolti nella risposta allo stress idrico, poi con metodi quali la selezione assistita o la selezione genomica, o ancora grazie al transgenico oppure attraverso l’editing del genoma, si introducono o modificano in modo specifico geni che sono importanti per la tolleranza allo stress».
Per il contrasto alla siccità si parla di Ogm. A che punto siamo?
«Ci sono applicazioni di questo tipo che hanno avuto come target geni strutturali e regolatori e che sono stati introdotti in determinate specie come, mais, frumento e soia. In merito alla tolleranza alla siccità i risultati sono positivi: sono stati registrati aumenti di resa anche del 10-20% in condizioni di stress e in ambienti a bassa produttività».
Può essere una soluzione?
«L’approccio genetico può contribuire a migliorare la resistenza alla siccità se affiancato a tecniche agronomiche conservative e all’irrigazione. Oggi l’obiettivo è di utilizzare l’editing del genoma, che consente di modificare geni già presenti nei genomi per regolarne l’efficacia».
Poche settimane fa, in Spagna, è stata misurata una temperatura del suolo di 53 gradi. Cosa significa per il discorso che stiamo facendo?
«Carenza idrica e risposta alle alte temperature sono due problemi a cui la pianta risponde in maniera diversa, che si verificano contemporaneamente, riducono le riserve idriche del suolo e modificano il ciclo dell’acqua. L’acqua diventa un bene non rinnovabile. Ritengo che sia urgente identificare percorsi più efficienti nell’uso dell’acqua per produrre alimenti. Se l’andamento del clima è quello prospettato, le principali aree di produzione di colture importanti sono destinate a diventare calde, secche, con riduzione della fertilità del suolo».
La siccità può però innescare altri problemi.
«Uno di questi è l’insorgere di malattie. Nel mais le alte temperature e la siccità portano allo sviluppo di malattie fungine della spiga, con la conseguente produzione di micotossine. La tolleranza alla siccità è un fenomeno complesso che va osservato nel suo insieme ed è legato al buon stato nutrizionale e fitosanitario della coltura».