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Un'alleanza scuola-lavoro per dare senso alla realtà

24 maggio 2022

Un'alleanza scuola-lavoro per dare senso alla realtà

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Otto italiani su dieci dicono che studiare è importante ma serve a poco. Ci sono tanti numeri nei pannelli di “Alleanza scuola e lavoro. Non è mai troppo tardi” che fotografano bene cosa funziona, poco, e cosa no, tanto, nel legame tra i mondi di istruzione e lavoro in Italia ma il dato più sconcertante è questo, riportato dal CENSIS. La mostra, curata dal giornalista Ubaldo Casotto, è esposta fino al 27 maggio nel cortile d’onore del campus di Largo Gemelli dell’Università Cattolica del Sacro Cuore ed è stata presentata lunedì 23 in aula Pio XI.

Scorrere i contenuti della mostra è interessante non solo per l’accurata descrizione di cosa sia oggi il rapporto mondo-lavoro, dei suoi problemi ma anche delle sue eccellenze, riportando alcuni numeri purtroppo noti o altri più impressionanti: esistono, per esempio, ancora 600mila analfabeti in Italia e il 49% delle aziende non trovano i diplomati di cui hanno bisogno. Tuttavia, vale la pena vedere la mostra soprattutto per le domande che suscita una volta terminata la visita: cos’è il lavoro e che cosa cerchiamo in esso, che scuola serve per vincere la sfida del futuro. «Per noi il lavoro è la modalità attraverso cui ognuno partecipa alla costruzione del bene comune, non tanto del capitale. È la dimensione in cui la persona si realizza e infatti la disoccupazione è uno dei più grandi attentati contro di essa. Questo crimine nasce soprattutto dalla mancanza di collegamento tra scuola e lavoro» ha spiegato Casotto introducendo i contenuti della mostra.

«Nelle sfide che si è trovata ad affrontare l’Italia è sempre ripartita dall’investimento sulla persona -ha sottolineato Maurizio Lupi, presidente della Fondazione Costruiamo il Futuro e sponsor della mostra-. Uno degli esempi più recenti è la battaglia per le 150 ore che i sindacati portarono avanti negli anni 70 per permettere ai lavoratori di prendere la licenza media. Quell’intuizione  fece riscoprire che la scolarizzazione aiutava gli operai a lavorare meglio e con più cura».

Investire nell’istruzione significa anche investire negli insegnanti, che in Germania prendono circa 57mila euro lordi all’anno mentre in Italia sono fermi a stipendi da 27mila lordi. Ma non è “solo” questo il punto: «Oggi i docenti sono pensati come lavoratori individuali – ha detto Pierpaolo Triani, docente di Pedagogia generale e sociale della Cattolica-, mentre si tratta di una professione collaborativa. Il fine non è l’insegnamento ma lo sviluppo della persona. Ogni volta che si confonde il mezzo con il fine si rischia la deriva impiegatizia di qualsiasi azione educativa. Occorre cambiare l’organizzazione scolastica ma la domanda che dobbiamo porci è quale idea di professione insegnante vogliamo portare avanti».

Il segretario generale del Censis Giorgio De Rita allarga l’obbiettivo: «Negli anni 70 credevamo nella scuola come ascensore sociale e il suo lungo lavoro di preparazione del capitale umano portò a una crescita economica del 4,5% su base annua. Oggi quest’idea si è persa e contemporaneamente invece dei flussi crescono i patrimoni. Da ciò denotiamo la paura della gente nel futuro. La scuola oggi deve ritrovare senso stando dentro le grandi trasformazioni ecologiche, digitali, demografiche. Ma per farlo deve uscire dagli schemi soliti».

Secondo Guido Merzoni, preside della facoltà di Scienze Politiche e Sociali della Cattolica, un’alleanza tra educazione e lavoro passa da un cambiamento culturale: «Come ci insegna Michael Sandel l’idea di lavoro legata alla sola capacità di generare reddito è un problema. Occorre uscire dalla logica dei vincitori e dei perdenti. Lavorare sullo stipendio degli insegnanti può essere un passo avanti ma bisogna tornare a investire nel sistema educativo. Il PNRR fa qualcosa in questa direzione ma si tratta per la maggior parte di investimenti che oggi ci sono e tra qualche anno chissà».

YOLO economy, NEET e il fenomeno della great resignation mettono in luce dinamiche che nel mondo del lavoro erano già in moto da tempo ma che la pandemia ha accelerato: «Si abbassa ovunque la soglia di tolleranza verso una vita che non rende felici – ha affermato don Julian Carron, docente di teologia dell’Ateneo-. Capire il senso dell’azione che faccio vuol dire cogliere il nesso tra il mio gesto e il destino della mia vita. Non esiste lavoro che possa sottrarsi alla ricerca di questa soddisfazione piena. La gente sta cercando il compimento umano. Il problema del lavoro non è dato solo dalle sue condizioni ma dalla sua mancanza di significato. Se la realtà non diventa la scoperta di quel Tu che la rende ragionevole essa prima o poi ci stufa».

Un articolo di

Michele Nardi

Michele Nardi

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