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Il successo è davvero tutto merito nostro?

06 maggio 2022

Il successo è davvero tutto merito nostro?

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La meritocrazia non è un percorso verso l’uguaglianza. È, piuttosto, una razionalizzazione delle disuguaglianze, che ha fatto crescere il divario tra chi vince e chi perde. Nell’era della globalizzazione, infatti, chi sta al vertice crede di essere lì per meriti propri e chi è rimasto indietro è convinto di meritarselo. Secondo Michael Sandel, professore all’Università di Harvard, la meritocrazia, cancella e non garantisce il bene comune.

Sandel, tra i più eminenti filosofi politici del nostro tempo e autore di numerosi bestseller tradotti in più di 30 lingue, tra cui anche Contro la perfezione. L’etica nell’età dell’ingegneria genetica (2008, 2022 nuova edizione con prefazione di Carlo Casalone) pubblicato dalla casa editrice Vita e Pensiero, giovedì 5 maggio ne ha parlato all’Università Cattolica del Sacro Cuore nella lecture The Tyranny of Merit: Can We Find the Common Good?, nell’ambito del ciclo di conferenze “Un secolo di futuro: l’Università tra le generazioni”, l’iniziativa promossa dall’Ateneo in occasione del Centenario. A dialogare con lui al termine della lezione Romano Prodi, presidente Fondazione per la Collaborazione tra i Popoli.

«Il termine meritocrazia è diventato un mantra della contemporaneità», ha esordito il rettore dell’Università Cattolica Franco Anelli, ricordando come il tema al centro della lezione evoca il titolo provocatorio di uno studio condotto dal professore di Harvard e raccolto nel suo ultimo libro pubblicato da Feltrinelli (2021). Una parola che ha in sé una «connotazione negativa», tanto che papa Francesco ha affermato che la “meritocrazia è una legittimazione etica delle disuguaglianze”. Di qui il ruolo delle istituzioni educative. «In Italia l’università è stata per molti anni un ascensore sociale», incidendo in una società scarsamente istruita. Ma «da decenni le università si interrogano sulle ragioni per cui quella funzione sembra essersi inceppata». Occorre considerare che «l’ascensore non sta sospeso nel vuoto sta dentro un edificio e se l’edificio cambia, se le strutture si torcono, se vacillano, l’ascensore si ferma. Per comprendere se i nostri sistemi formativi siano ancora capaci di promuovere lo sviluppo della persona occorre capire come si sta modificando l’edificio, cosa sta accadendo alla nostra società, non solo quali sono le conoscenze utili ma quali sono i meccanismi di relazione tra individui e istituzioni».

La «nostra società si caratterizza per una grande divisione», che dipende dall’«atteggiamento verso il successo» ha osservato Sandel. E ha le sue basi in un principio: “Se tutti partono dallo stesso livello meritano di essere ricompensati”. La meritocrazia si pone, così, come un’«alternativa egualitaria» al «nepotismo» sociale. Ma c’è un problema: «Negli Stati Uniti i bambini nati poveri restano poveri».  

Un articolo di

Katia Biondi

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Sandel solleva due obiezioni morali fondamentali. La prima: il talento che mi permette di vincere dipende dalla fortuna che ho avuto. La seconda, invece, è che viviamo in una società che premia i talenti. Per fare un esempio: Cristiano Ronaldo è un grande calciatore e guadagna tanto perché vive in una società in cui il calcio è uno degli sport più importanti al mondo. Se fosse vissuto nel Rinascimento per lui non sarebbe stato così. Alle prime due obiezioni morali se ne aggiunge una terza, importante e di natura politica. Ha a che fare con l’atteggiamento nei confronti del successo: la «meritocrazia spinge verso la hybris» che, dimenticando che dipendiamo dalla fortuna, non fa altro che aumentare il divario tra perdenti e vincitori. E tutto questo con «conseguenze disastrose sul bene comune».

Che cosa ha provocato questa polarizzazione? Per Sandel c’è un parallelismo tra l’ideale meritocratico dominante e la teologia biblica del merito. Il libro di Giobbe è un esempio primordiale di “tirannia del merito”: servire Dio significa accettare di soffrire ed essere punito. Anche i dibattiti cristiani sulla salvezza – a partire da Agostino a Lutero, con la teologia della grazia, fino ad arrivare a Calvino e alla sua etica del lavoro – riportano al contesto teologico da cui è emerso l’aspetto trionfalista del successo.

Dal suo punto di vista l’«ordine meritocratico laico di oggi moralizza il successo economico nello stesso modo della fede provvidenziale. Una modalità che santifica i vincitori e denigra i perdenti». C’è uno slogan che riflette bene il concetto di ineguaglianza insito nel termine meritocrazia: “eliminare le barriere”, “avere le stesse opportunità”. Se vuoi competere nel mondo globale - hanno detto le élite ai lavoratori frustrati dai bassi salari - devi andare all’università”. Ma questo altro non è se non un «riconoscimento del loro fallimento» che ha determinato una ribellione assolutamente legittima e giusta di chi non sta in cima.

 

 

 

Eppure, «siamo cresciuti con l’esaltazione del merito» che, se all’inizio ha scomposto «certe rigidità», poi, si è trasformato in uno «strumento di sopraffazione», ha fatto notare Romani Prodi, analizzando l’esame critico e complesso della società offerto dal professore di Harvard. Un’idea di «ingiustizia», di «differenziazione sempre più accettata». Basti pensare che oggi non c’è più indignazione se un Ceo guadagna trenta volte in più di un lavoratore. Come facciamo allora a uscire dalla trappola della meritocrazia?

Sandel suggerisce alcune soluzioni ai problemi della globalizzazione e della disuguaglianza: ripensare il ruolo delle università, la dignità del lavoro e il significato del successo. Nell’era della meritocrazia abbiamo convertito le «università in macchine di selezione», escludendo alcune persone. Le istituzioni universitarie, al contrario, devono «dare spazio» ed «esortare gli studenti a riflettere su quello che è importante». Occorre, poi, concentrarsi per migliorare la vita di quanti restano indietro, aiutandoli a guadagnarsi un «riconoscimento sociale». La pandemia è stata un’occasione per rivalutare il valore dei lavoratori essenziali, per esempio corrieri o infermieri, solo per citarne alcuni. Insomma, bisogna essere consapevoli del nostro destino e di quanto ci è stato dato. Solo questo può «ispirarci a essere umili» perché «l’umiltà può allontanarci dall’etica dura del successo».

Serve, però, anche altro. C’è un problema profondo di organizzazione della società, e soprattutto di «crisi della democrazia» che ha la sua origine nel «depauperamento delle categorie intermedie», ha precisato Prodi. Per questo è fondamentale «costruire una società con una maggiore partecipazione». Un aspetto condiviso dal filosofo statunitense: la «politica» può riportare nuovamente i «cittadini nel dibattito pubblico» eliminando la «confusione» che negli ultimi quarant’anni si è creata tra mercato e merito.

Come spiegare, allora, agli studenti perché devono studiare così tanto? Ovvero, «queste derive delle idee di merito possono trovare una nobilitazione associata all’idea di responsabilità», ha chiesto in conclusione il rettore Franco Anelli? Anziché una «definizione tecnocratica», ha suggerito Sandel, dovremmo promuovere un concetto di merito che coltiva l’«apprendimento umanistico» e, pertanto, le università devono diventare un luogo in cui pensare e credere.

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