Non a caso il direttore Fontana chiama in causa la parola «trasparenza». E rivolgendosi agli autori ha chiesto: in che modo un organismo come la Corte costituzionale può essere trasparente e stabilire un rapporto di fiducia con la società? «Il libro racconta un pezzo di storia del nostro paese, vale a dire cinque anni di vita della più alta istituzione di garanzia della Repubblica, la Corte costituzionale, in cui è avvenuto un cambiamento importante che va al di là della comunicazione e ha a che fare con la democrazia», ha risposto Donatella Stasio, per tanti anni giornalista del quotidiano Il Sole 24 Ore, poi passata dall’altra parte della barricata ricoprendo il ruolo di responsabile della comunicazione della Consulta. Secondo Stasio tra Corte costituzionale e società civile c’è sempre stata molta «distanza», da imputare in gran parte a media, accademia, giuristi. Eppure, «fin da quando è nata nel lontano 1956 ha avuto l’intuizione di aprire subito un canale con la società civile. Poi però è rimasta chiusa nella sua autoreferenzialità, comunicando in maniera altalenante. Una consapevolezza del dovere di comunicare maturata nei cinque anni che raccontiamo nel libro e di cui siamo stati testimoni indiretti e, per certi versi, anche artefici». Una sfida difficile e rischiosa, ma al tempo stesso entusiasmante, impossibile da evitare. «Il modo in cui si comunica racconta molto della istituzione e dello stato di salute della democrazia. La Corte di quegli anni, quindi, è scesa dalla torre d'avorio e si è messa in gioco, accettando la sfida di una comunicazione multimediale, inclusiva e fondamentale per promuovere quella che Paolo Grossi chiamava “mentalità costituzionale” necessaria per arginare le regressioni democratiche», ha chiarito Stasio.
Anche perché, «la fiducia in un sistema democratico si basa sulla conoscenza non sul metus, sul timore di chi riceve il comando da colui che lo dà in quanto espressione di una realtà superiore rispetto a quella dei cittadini», ha aggiunto il presidente emerito della Consulta Giuliano Amato. «Dico qualcosa di sbagliato o di eretico se sostengo che una democrazia non si fonda su questi congegni come neppure la Chiesa che ha voluto fondarsi sui principi del Concilio Vaticano II?», si è chiesto Amato. «Siamo tutti ben consapevoli che una Corte adotta decisioni di un’importanza fondamentale per la vita delle persone. Spesso lo fa con leggi le cui parole risultano non comprensibili, non riconducibili all’effetto che desiderano ottenere. Si tratta, allora, di fare in modo che quella decisione, con le sue motivazioni, sia percepita come la ragione di un diritto. Solo così si può ristabilire un legame di fiducia con la società civile».
Va in questa direzione l’iniziativa promossa dall’ex procuratore capo di Milano Edmondo Bruti Liberati di coinvolgere la Scuola superiore della magistratura in un’esperienza simile a quella che esiste già in Francia, vale a dire la stesura di una guida pratica alla comunicazione per i magistrati. «Con questa pubblicazione si è cercato di sensibilizzare anche la magistratura sul ruolo imprescindibile della comunicazione», ha puntualizzato Raffaella Calandra, capo ufficio stampa del ministero della Giustizia. «Dopo aver ricoperto per molto tempo il ruolo di giornalista, in questi ultimi tre anni trascorsi da comunicatore ho avvertito la necessità di come la presenza di un professionista che affianchi i magistrati nel comunicare l’esito delle proprie decisioni rappresenti un servizio alla democrazia poiché mette i cittadini nelle condizioni di crearsi la propria opinione».
Del resto, ha fatto eco Francesco Viganò, giudice della Corte costituzionale, «noi abbiamo un disperato bisogno di comunicare con le persone». La Consulta, oltre a essere una delle istituzioni più sconosciute della Repubblica, è altresì sconosciuta nelle funzioni che svolge: tutelare i diritti fondamentali delle minoranze e delle singole persone. Pertanto, ha aggiunto il giudice Viganò, per noi «comunicare non equivale a una ricerca di legittimazione, visto che non siamo in competizione con altre istituzioni». Piuttosto, «è un modo per avere lealtà, diversa dalla fiducia», in quanto implica «la disponibilità a eseguire decisioni con cui talvolta non si è d’accordo». Un atteggiamento cruciale per il «funzionamento di un’istituzione giudiziaria». E anche della democrazia.