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Una storia in comune

09 maggio 2025

Una storia in comune

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Che ruolo ha svolto la cultura popolare in Italia? E quale sarà la sua funzione domani? Intorno a questi due interrogativi si è sviluppata, lo scorso 6 maggio, nella sede di Milano dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, la presentazione di “Una storia in comune”, il libro edito da Mondadori, scritto a quattro mani da Fausto Colombo, docente scomparso il 14 gennaio scorso, che in Ateneo ha insegnato a lungo Teoria e tecniche dei Media, e da Lorenzo Luporini, un suo ex allievo. La «lezione aperta» è stata l’inizio di una riflessione sul lascito scientifico di uno studioso che ha dato un contributo fondamentale a una tradizione di ricerche e riflessioni sulla relazione tra media, società e politica», come ha detto Andrea Santini, preside della Facoltà di Scienze Politiche e Sociali che con il Dipartimento di Scienze della Comunicazione e dello Spettacolo, ha voluto l’iniziativa. Tuttavia, l’incontro, per le circostanze in cui si è svolto, è stato anche un affettuoso omaggio a un docente molto amato. Per questo, inevitabilmente, gli interventi sono stati anche costellati di aneddoti e ricordi personali, in una sorta di piccolo rito tra persone che, per parafrasare il titolo del volume, avevano anch’essi una loro particolare storia in comune: quella di essere stati studentesse e studenti del professore (l’aula ne era piena), oppure allievi diventati negli anni a loro volta docenti e ricercatori, o ancora colleghi.

Tornando alle domande del dibattito, bisogna dire che alla prima delle due il saggio stesso dà una risposta molto precisa e argomentata, offrendo un’ampia dose di informazioni, dettagli, esempi, a volte virtuosi e onorevoli, altre volte molto meno, lungo gli oltre 150 anni d’industria culturale del nostro Paese, che non a caso, coincidono con il periodo della sua storia nazionale. Dalla letteratura d’appendice ai fumetti, dal cinema alla televisione, dal melodramma alle “canzonette”, passando per il racconto dei grandi eventi sportivi e dei drammi del nostro Paese, i prodotti della cultura popolare raccontano chi siamo, con le nostre virtù e i nostri vizi (che rivelano anche quando vorrebbero nasconderli). Non solo. Fanno anche qualcosa di più: costruiscono memorie condivise, grazie alle quali possiamo sentirci, come individui, parte di una comunità.

In questo senso, come ha sottolineato Emanuela Mora, professoressa ordinaria di Sociologia della comunicazione presso la Facoltà di Scienze Politiche e Sociali, sarebbe meglio precisare che quelle opere dell’ingegno non sono solo «uno specchio riflettente», in cui possiamo vedere noi stessi, ma «esse stesse costruiscono» l’immagine in cui ci riconosciamo. Quando Pier Paolo Pasolini si aggirò per l’Italia armato di microfono per fare domande sul costume sentimentale e sessuale dei nostri connazionali, realizzando quel celebre film documentario, che intitolò “Comizi d’amore”, non ci restituì solo il ritratto (a dire il vero terrificante) del maschio italico, mostrandoci ad esempio come agli inizi degli anni '60 fosse ancora giustificato il delitto d’onore. Costringendoci a fare i conti con quella dimensione, il reportage dello scrittore e regista contribuì anche a modificare quella realtà: fu merito di lavori come quello e al dibattito che ne seguì, se poi (un ventennio più tardi a dire il vero) si cancellarono le attenuanti previste per chi causava "la morte del coniuge (vale a dire la moglie, n.d.r.), della figlia o della sorella, nell'atto in cui ne scopriva la illegittima relazione carnale”.

Com’è stato osservato sempre dalla professoressa Mora, la stessa operazione la fece Franca Rame con il suo celebre monologo sullo stupro, in cui l’attrice e impresaria teatrale, davanti alle telecamere di RaiUno, l’ultimo sabato di novembre 1987, nel popolarissimo programma “Fantastico 8”, condotto da Adriano Celentano, mise in scena il racconto della violenza subita da una donna, senza rivelare che quella donna era lei. Secondo la professoressa Mora, quei prodotti a tutti gli effetti hanno cambiato il nostro modo di concepire le relazioni tra noi, hanno inciso sul costume, in altre parole «hanno fatto cultura», non limitandosi a riprodurla.

Tuttavia, forse il punto decisivo non è tanto chiedersi cosa venga prima o dopo, chi determini o sia condizionato da chi. La questione cruciale sta altrove. Posto che la cultura popolare sia la dieta di cui si nutre un popolo, che essa sia l’insieme delle esperienze condivise grazie alle quali sappiamo «stare a tavola» (secondo la metafora utilizzata da Colombo e Luporini nel saggio che comincia con il celebre libro di ricette di Pellegrino Artusi concepito all’indomani dell’Unità d’Italia), cosa succede se un algoritmo decide per ognuno di noi quello di cui ci dobbiamo nutrire, come fa oggi ancora meglio dei suoi precursori un social potentissimo come TikTok? «Nell’epoca della frammentazione dei nostri consumi culturali, che ne è di quella che con grande approssimazione definiamo identità nazionale, in un Paese come l’Italia caratterizzato da profonde e mai risolte contrapposizioni?» si è chiesto Luca Castellin, professore associato di Storia del pensiero politico. E spingendoci ancora più avanti: «che ne è della cultura popolare quando l’Intelligenza Artificiale è in grado di realizzare testi, immagini, video capaci di diventare virali più di quanto possano fare gli umani?» ha rilanciato Alessandro Zaccuri, direttore della comunicazione dell’Ateneo.

Alla prima questione una parziale soluzione gli autori di “Una storia in comune” la trovano analizzando l’evoluzione del programma più longevo della televisione italiana, precedente addirittura alla sua nascita: il Festival di Sanremo.

La gara canora nata nel 1951, dopo una serie di alti e bassi, ha recuperato popolarità dalla conduzione di Claudio Baglioni nel 2018 fino a tornare ai fasti delle origini con le ultime edizioni di Amedeo Sebastiani (in arte Amadeus). Una delle chiavi del successo dell’ex DJ diventato presentatore di programmi televisivi di successo, e poi anche direttore artistico del festival musicale per eccellenza, è stato utilizzare la famiglia «come unità di misura per raccontare l’Italia e parlarle», scrivono Colombo e Luporini nel capitolo dedicato a questo argomento. Come ha rivelato lui stesso, nella costruzione del cast Amadeus è partito dalle mura di casa sua, prestando attenzione a cosa ascoltava la figlia ventenne, il figlio adolescente, la moglie, i genitori anziani, gli amici e le persone che stavano accanto a lui. La famiglia italiana, per quanto molto cambiata rispetto a quella tradizionale, è stata dunque lo strumento utilizzato per contemplare tutti e tutti.

«Guardando alla famiglia, benché questa definizione vada aggiornata ai tempi, Sanremo ha dimostrato non solo di sapersi rinnovare ma anche di spezzare quelle bolle in cui gli strumenti digitali ci rinchiudono - ha precisato Luporini durante il dibattito -. Pure nel mondo dell’algoritmo, in cui sembra che non ci sia più nulla che ci accomuni, Sanremo è capace di produrre l’effetto FOMO (Fear Of Missing Out, n.d.r.): non guardarlo vuol dire essere esclusi dalle conversazioni il giorno dopo con amici e colleghi». Il suo recuperato successo, insomma, sembra una buona notizia per il futuro della cultura popolare. Quanto all’impatto dell’Intelligenza Artificiale, invece, la faccenda è un po’ più complicata.

«Durante una pausa, al tavolo di un caffè, vicino all’Università, con Fausto Colombo abbiamo concepito un piccolo esperimento: abbiamo provato ad interrogare ChatGPT su un tema controverso, come le proteste ambientaliste di Ultima Generazione – ha raccontato Giovanna Mascheroni, professoressa ordinaria in Sociologia dei Processi Culturali e Comunicativi presso la Facoltà di Scienze Politiche e Sociali –. Ci siamo accorti che l’Intelligenza Artificiale descriveva quelle manifestazioni in modo molto strumentale, dando peraltro una rappresentazione molto superficiale di tutta la storia dei movimenti per i diritti civili. Che cosa accadrà domani, quando ChatGPT sostituirà i motori di ricerca, attraverso i quali cerchiamo contenuti e formiamo le nostre conoscenze?»

A questo quesito non c’è ancora davvero una risposta né forse può esservi. Verrebbe da replicare con una citazione cara a Fausto Colombo, che una studentessa ha ricordato alla fine: «Lo scopriremo solo vivendo». Ammissione autoironica dei limiti di ogni indagine.

Un articolo di

Francesco Chiavarini

Francesco Chiavarini

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