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La parola, tra propaganda e antidoto alla violenza

12 aprile 2023

La parola, tra propaganda e antidoto alla violenza

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La parola, scritta o parlata, è uno strumento potente. Può assumere un significato negativo, trasformandosi in un veicolo di propaganda, disinformazione, falsificazione. Ma può diventare, coerentemente con la sua finalità originaria, comunicazione, condivisione, straordinario antidoto contro la violenza. In questo senso, «la letteratura russa, quella che tutti amiamo, ci dà molti esempi», ha spiegato Adriano Dell’Asta, docente di Lingua e letteratura russa e Lingua e cultura russa all’Università Cattolica e presidente della Fondazione Russia cristiana. L’uso della parola come strumento contro la falsificazione della realtà può svilupparsi secondo modalità inattese, ad esempio attraverso quella «cosa stranissima che sembra il contrario della parola», che è il silenzio, uno spazio per recuperare la possibilità di un incontro.

 

 


Una testimonianza è offerta da Dostoevskij che, di fronte «alla sfida della parola violenta risponde con il silenzio», un concetto che «chiarisce bene quando il suo Cristo, nella leggenda del Grande Inquisitore, colma questo silenzio con un bacio», espressione di quell’amore in cui gli opposti inconciliabili s’incontrano. Oltre al silenzio, può assumere un ruolo fondamentale la comunicazione che si oppone alle fantasie, alle ricostruzioni ideologiche della realtà. La necessità che le idee siano verificate alla luce del reale viene valorizzata da un altro grande intellettuale russo: Michail Bulgakov. Le sue opere – “Il Maestro e Margherita” insieme con i racconti “Uova fatali” e “Cuore di Cane” – hanno fatto da leitmotiv alla prima tappa dell’incontro “La parola e la violenza”, il convegno internazionale che giovedì 30 marzo ha chiuso la XIII edizione del ciclo “Giustizia e letteratura”, promosso dall’Alta Scuola “Federico Stella” sulla giustizia penale (Asgp). Un viaggio, suddiviso in tre tappe, per esplorare il rapporto tra verità, potere, giustizia, genocidio, crimini di guerra, ruolo del diritto. E dove le connessioni con l’attualità sono evidenti se si pensa al conflitto russo-ucraino, dominato da un eccessivo uso propagandistico della parola.

La sfida di Michail Bulgakov tra verità e violenza

La letteratura russa, dunque. Secondo il professor Dell’Asta, nelle opere di Bulgakov la verità non si definisce attraverso concetti astratti, bensì attraverso dati reali e concreti. Lo dimostra il racconto della Passione che viene proposto nella prima parte de “Il Maestro e Margherita”, una «narrazione non ideologica» bensì legata all’«umile e incontrollabile fatto» (l’esistenza storica e reale di Jeshua Ha-Nozri), e quindi a quell’esperienza che «non regola, non impone niente, non è violenta». L’insolito filosofo svela questo sorprendente mistero proprio rispondendo al quesito, postogli da Ponzio Pilato, sull’essenza della verità: «La verità innanzi tutto è che ti fa male la testa, ti fa così male che pavidamente pensi alla morte». La violenza dell’ideologia che pretende di ricreare il mondo e sostituire la realtà si può sperimentare anche in “Uova fatali” e “Cuore di cane”, dove tutto è radicalmente rovesciato, persino i valori umani. Un rovesciamento che si situa in un livello profondo, in cui a dominare è la pretesa dell’uomo di avere sotto il proprio controllo ogni teoria. «In questi racconti si ripete simbolicamente quello che era avvenuto con la Rivoluzione, con le sue teorie stupende e progressive, con le sue parole che avevano distrutto la vecchia realtà creando al suo posto un mondo fantastico e surreale, violento e invivibile», ha osservato Dell’Asta. E che poi è anche il cuore de “Il Maestro e Margherita”: lo smascheramento della «fiducia ottimistica» in ogni ideologia – e non solo quella staliniana vissuta dall’autore – che contrappone il nulla e l’invenzione ai fatti e all’esperienza reale.

 

 

E, in effetti, ha commentato la ricercatrice dell’Alta Scuola “Federico Stella” sulla giustizia penale Gaia Donati, i riferimenti agli anni bui dello stalinismo e alla nuova idea di umanità che vi è sottesa sono costanti nel romanzo dello scrittore russo. A essere cambiato non è solo un sistema politico, economico o sociale: il potere instauratosi mira a sostituire all’uomo perfettibile, creato da Dio, un essere che si produce da sé, privo di difetti, e il mondo stesso è assunto quale costruzione totalmente umana, sprovvista di ogni finalità soprannaturale. «Il diavolo che assume le fattezze di Woland ha il compito di disvelare l’irrazionalità dell’organizzazione sociale dell’epoca», dichiara Donati. È quindi un doloroso aggiornamento del Mefistofele goethiano a fronte dell’esperienza drammatica che l’umanità ha vissuto durante lo stalinismo: una sorta di «messaggero della verità», una «voce della coscienza» che vuole «portare l’uomo alla memoria della propria finitudine e alla consapevolezza della necessità di accettazione dell’altro e del diverso».

 

 

Già, perché la prima forma di violenza che il potere esercita nei confronti dell’uomo è «disumanizzare la sua anima», impedendogli di rivolgere lo sguardo alla realtà. «Il potere sovverte la verità, che è uno stato fattuale come il mal di testa di Pilato, un dato esistente che non si presta a nessun sovvertimento dipendente dalle logiche o ideologie del potere», ha dichiarato Alessandro Provera, docente all’Università del Piemonte Orientale. In Bulgakov la parola verità è strettamente connessa a giustizia, anzi insieme costituiscono una endiadi. Questo perché la provocazione della liberazione dal potere, presente ne “Il Maestro e Margherita”, ha un significato preciso e significa: «Garantire all’uomo la possibilità di risolvere e di superare la conflittualità attraverso sistemi di conciliazione, di incontro tra le persone che soddisfino il bisogno di verità spesso non garantito dall’intervento dell’autorità del potere che, nella visione di Bulgakov, ostacola questa necessità intima ed essenziale dell’animo umano».

 

 

 

Le parole del diritto contro la violenza: dal genocidio al crimine di aggressione

D’altronde, il potere agisce in due modi: da una parte, con il controllo del cibo e dell’acqua, dall’altra, con quello delle coscienze attraverso l’uso del linguaggio che genera sensi di colpa. Ne è convinto Silvano Petrosino, docente di Antropologia filosofica, che si è così addentrato nella seconda tappa del convegno, dedicata al nesso tra parola e violenza declinato nel tema del diritto. Secondo il professor Petrosino quando qualcuno parla e comunica mette sempre in scena un testo che è l’intreccio di tre immagini: l’immagine dell’altro, quella di se stesso e di ciò di cui si sta parlando. «Ogni volta che parlo non posso evitare di mettere in scena un mondo» col rischio però di offendere l’altro. Non è un caso allora che in quasi tutte le esperienze religiose c’è una sorta di «elogio del silenzio» che vuol dire non solo dare spazio alla voce di Dio ma sapere che ogni parola ritaglia, determina, definisce. Tuttavia, in quanto esseri parlanti, non possiamo rinunciare alla parola per il timore di offendere o definire l’altro. Ed è proprio per questa complessità sottesa al linguaggio e alla sua relazione con il potere che ha colui che parla, è necessario «essere cauti nel parlare», ha suggerito Petrosino citando il gesuita Luis Vives, e avere «l’accortezza di pensare seriamente» quando si affrontano temi forti, come quello dell’amore e della giustizia.

Dal potere del linguaggio alle parole che il diritto usa contro la violenza. Come genocidio, parola inventata dall’avvocato ebreo polacco Raphael Lemkin, che ad Auschwitz aveva perso i famigliari, ma che aveva iniziato a interrogarsi sul vuoto normativo davanti allo sterminio degli Armeni a inizio Novecento. Un concetto giuridico nuovo quello di genocidio, ha specificato lo storico Marcello Flores, già docente di Storia dei diritti umani all’Università di Siena, e che per la prima volta sottolinea non tanto il ‘fatto’ della distruzione di singoli individui o popoli già avvenuta nel corso della storia, quanto proprio l’elemento dell’intenzione di distruggere un gruppo etnico, nazionale o religioso in quanto tale. Il periodo della Seconda Guerra Mondiale, del resto, pone di fronte a forme complesse di violenza che suscitano, a loro volta, la creazione di nuove fattispecie criminose grazie a una nuova consapevolezza giuridica: così, oltre al genocidio, e accanto ai più risalenti crimini di guerra, è in quegli anni che viene elaborata anche la nozione di crimini contro l’umanità, utilizzata durante il processo di Norimberga e coniata dal giurista Hersch Lauterpacht, anch’egli ebreo polacco. E in qualche modo, ha aggiunto il professor Flores, l’Assemblea delle Nazioni Unite con l’approvazione il 9 dicembre del 1948 della Convenzione sul genocidio (il male) e il 10 della Dichiarazione universale dei diritti umani (il bene) cerca simbolicamente di rispondere al tema difficile e complesso che è la compresenza e l’antagonismo tra le forze del bene e quelle del male.

 

 

Sebbene il concetto di genocidio a livello internazionale resti immutato dal 1948, l’emergere della giustizia penale internazionale – con l’istituzione di tribunali ad hoc e infine con la nascita della Corte penale internazionale permanente – ha dato vita a interpretazioni giurisprudenziali e a dibattiti dottrinali. Diversi ordinamenti giuridici nazionali hanno introdotto i crimini internazionali nel diritto interno, adattando e in taluni casi ampliando le fattispecie previste dalle fonti normative sovranazionali. Quanto all’Italia, essa è in procinto di dotarsi di un “Codice dei crimini internazionali”, come ha raccontato Chantal Meloni, docente di Diritto penale all’Università Statale di Milano che ha fatto parte della Commissione di esperti incaricata, nel corso della precedente legislatura, di redigere il Codice. «Abbiamo ritenuto importante apportare alcune modifiche alla nozione di genocidio in modo da aggiornarne l’ambito applicativo e garantirne l’adeguata armonizzazione lessicale con l’ordinamento italiano», ha affermato Meloni. Tra le innovazioni più rilevanti, l’«inclusione di una fattispecie ad hoc che incrimina il genocidio culturale», un avanzamento che pone l’Italia all’avanguardia. Le sorti del codice italiano dei crimini internazionali – ha ricordato la studiosa – non sono allo stato note, avendo il Consiglio dei Ministri del governo in carica approvato un disegno di legge nel quale paiono essere state stralciate proprio le fattispecie di genocidio e crimini conto l’umanità.

Un richiamo al conflitto russo-ucraino è inevitabile. L’occasione è il termine ‘aggressione’ tornato a essere estremamente attuale in relazione alla necessità, invocata da più parti, di non lasciare impunita l’azione intrapresa della Russia nei confronti dell’Ucraina. In particolare, la giurista Meloni, ha ricordato come il recente mandato di arresto da parte della Procura e della Corte penale internazionale nei confronti del presidente russo Vladimir Putin e della commissaria per i diritti dei bambini della Federazione russa Maria Lvova-Belova non abbia ad oggetto il crimine di aggressione, bensì un crimine di guerra (il trasferimento forzato di persone e, nella specie, di bambini), che potrebbe tramutarsi successivamente in imputazione per crimini contro l’umanità. Attorno al crimine di aggressione esiste un «gap di impunità» da attribuirsi a quella che Chantal Meloni definisce una «ipocrisia degli Stati in questa materia». Pur se annoverato tra i quattro crimini del diritto internazionale fin dal processo di Norimberga, la fattispecie di aggressione ha seguito una evoluzione giuridica diversa rispetto al genocidio, ai crimini contro l’umanità e di guerra, non venendo subito definito e previsto del trattato istitutivo della Corte penale internazionale: il crimine di aggressione ha fatto ingresso nello statuto della Corte solo anni dopo e ciò perché gli Stati, a partire dai membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, a lungo «non hanno potuto e non hanno voluto addivenire a una definizione di questo crimine» perché in difficoltà rispetto ad alcune operazioni di forza da essi stessi commesse nella storia recente. Una «riluttanza» che oggi influisce anche sulle concrete possibilità dell’intervento penale in risposta all’aggressione russa in Ucraina.

La lezione sempre attuale del racconto biblico di Caino e Abele

Eppure, violenza, aggressività, offesa appartengono alla storia dell’umanità. Lo testimonia il racconto biblico di Caino e Abele al centro dell’ultima tappa dell’incontro. «Il rapporto fraterno non è un rapporto scontato. Nel racconto biblico scopriamo che il fratello può essere il primo altro che incontriamo, dunque in un certo senso il primo straniero, il primo potenziale nemico: un messaggio anche per l’uomo contemporaneo», ha precisato la docente di Diritto penale nella facoltà di Scienze politiche e sociali Claudia Mazzucato, moderando la sessione dei lavori.

 

 

Proprio per questo il racconto biblico di Caino che “alza la mano” contro il fratello Abele è stato oggetto di studio non solo da parte della scienza biblica e della teologia ma della filosofia, della letteratura e finanche il teatro, che l’hanno reinterpretata in chiave moderna, come ha evidenziato Davide Assael, filosofo e autore di libri sulla fratellanza. Contrariamente alla lettura superficiale che vede Caino cattivo e Abele buono, il filosofo ha messo in evidenza la complessità di relazioni tra i due fratelli anche alla luce delle aspettative generazionali, delle rivalità, del silenzio e mancato riconoscimento reciproco che finiscono per chiudere l’orizzonte esistenziale del primogenito e annunciare il tragico epilogo. Non a caso, nella tradizione ebraica, Abele è “il muto”: il testo biblico, infatti, non ci fa udire nemmeno una sua parola. Lungi dal mettere da parte l’azione tragica di Caino, che causa la morte del fratello, la narrazione biblica invita ad andare oltre la domanda “Chi ha iniziato per primo? Chi ha ragione? Chi è nel giusto?” per concentrarsi invece sulla relazione, e quindi anche sulla dinamica azione-reazione che conduce ciascuno ad assumere – a fare proprie responsabilmente – le «conseguenze dei propri gesti». È così che si costruisce un percorso di riparazione a partire dal dato che «la fratellanza non è originaria ma è, appunto, una relazione da costruire».

Anche per Guido Bertagna – gesuita, artista, mediatore penale cui si deve l’avvio di un’esperienza di incontro tra vittime e responsabili di violenza politica – «la fraternità nasce fragile». Questa storia ci riguarda tutti e narra quello che accade sempre. Dio si identifica nel grido che si leva dal sangue di Abele – letteralmente «dai sangui», al plurale – e, proprio per questo Dio si identifica, allo stesso tempo, anche con il futuro di Caino. Dio vuole che Caino viva».

Il conflitto tra i due fratelli si perpetua nel tempo fino ai nostri giorni. Infatti «rappresenta un modo calzante per descrivere i conflitti attuali e pensare alla giustizia, bene sfuggente ma incredibilmente necessario», ha dichiarato Agnese Moro, psicologa, giornalista e figlia dello statista ucciso dalle Brigate Rosse, oggi impegnata in incontri riparativi. Riprendendo il tema del sangue, Agnese Moro si è interrogata sulla risposta al grido di quel sangue, che nel racconto biblico viene raccolto dalla terra. Le sue parole hanno rievocato il sangue del padre Aldo Moro e degli uomini della scorta, sangue le cui tracce sono visibili ancora oggi sulle tesi di laurea che lo statista doveva discutere il giorno del rapimento e sugli oggetti personali (fede, portafogli… ) restituiti alla famiglia. Cosa fare? Avere a cuore un futuro di vita significa rendere generativa la terra che raccoglie il sangue e, per esempio, desiderare anche per i responsabili della violenza una «giustizia del ritorno» nella società e nelle relazioni.


Le nuove prospettive della criminologia narrativa

Una giustizia, insomma, che pone al centro le persone e le loro storie. Ed è quello che fa anche la criminologia narrativa. Lo ha testimoniato Lois Presser, docente di Sociologia alla University of Tennessee e massima esperta di tale disciplina, nella sua lectio magistralis “Criminologia narrativa: il contributo della teoria criminologica e letteraria nella comprensione e risposta alla violenza”. Con alle spalle numerose pubblicazioni scientifiche in questo ambito, la professoressa Presser, partendo dall’analisi di alcuni casi concreti, ha mostrato in che modo la narrative criminology, basata sull’analisi delle storie, sia in grado di aprire a nuove prospettive nella interpretazione dei crimini. La «conoscenza narrativa» degli altri intreccia così anche i percorsi della giustizia riparativa, nonché “Giustizia e letteratura”, il filone di studio inaugurato dall’Alta Scuola “Federico Stella” sulla giustizia penale più di dieci anni fa.

Un articolo di

Redazione

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