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Adriano Panatta racconta Jannik Sinner all'Università Cattolica

14 febbraio 2024

Adriano Panatta racconta Jannik Sinner all'Università Cattolica

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Nel capitolo “Persone che non dicono cose banali” c’è un corposo paragrafo dedicato a Adriano Panatta. Uno che banale non lo è mai stato, prima da tennista, poi da capitano non giocatore della squadra italiana di Coppa Davis, e da anni nelle vesti dell’opinionista. «La cosa che più mi annoia a morte è parlare di tennis» racconta l’ex numero quattro del mondo, il migliore ranking maschile raggiunto da un tennista italiano nell’era Open, equiparato 47 anni dopo da Jannik Sinner. «A casa non ho neanche una coppa. Non ci tengo. Il mio amico Giacomo Agostini ha costruito un bel museo con i suoi cimeli. Io quella degli Internazionali d'Italia l’ho regalata, le altre le ho perse in qualche trasloco». 

Panatta parla del 15 volte campione del mondo di motociclismo, ma ricorda quello che ama ripetere Marco Lucchinelli, il primo italiano a vincere il Mondiale nella top class proprio dopo Agostini, secondo cui «la cosa bella è il piazzamento, il risultato che ti porti dentro; la coppa no, quella dà anche noia, devi pulirla».

«Non a caso Panatta non era solo un tennista, era un mito» sottolinea Giorgio Simonelli durante la lezione speciale che ha portato al master Comunicare lo Sport l’ultimo italiano a conquistare gli Open di Francia. «Giocava a tennis pur non appartenendo a quella classe sociale che normalmente frequentava i campi di terra rossa. E grazie a lui tanti hanno incominciato a giocare a tennis. È stato il nostro numero uno, e quando ha concluso la carriera da atleta ha continuato a comunicare lo sport in maniera molto efficace». 

 

«Ho avuto una vita straordinaria» racconta Panatta. «Ho fatto quello che sognavo da bambino. Siamo riusciti a far diventare popolare uno sport di nicchia; di questo sì, me ne vanto. Nel ’68 agli Australian Open ho incontrato un mondo completamente nuovo rispetto a quello che conoscevo. Negli anni Settanta ho visto con i miei occhi la Cortina di ferro. Poi siamo arrivati a Johannesburg e c’era tutto lo stadio bianco, solo uno spicchio era riservato ai neri. Negli spogliatoi un uomo mi ha preso la mano e mi ha detto: “Vinci per noi”».

«Come si fa a spiegare a dei ragazzi di vent’anni il mondo che abbiamo vissuto?» si chiede Panatta, guardando negli occhi gli studenti e la direttrice didattica del master, Paola Abbiezzi. «Ho fatto un mestiere nel quale a 33, 34 anni sei vecchio. Voi invece dopo i 35 sarete più bravi. Il nostro è un mestiere maledetto. Molti non riescono a staccarsi, e diventano infelici. Io invece non mi divertivo più. Il giorno che ho smesso è stato il più bello della mia vita, perché la vita vera l’ho vissuta dopo».  

Quello che si svela agli studenti dell’Università Cattolica è un Panatta che va ben oltre la raccontatissima finale di Coppa Davis in Cile, quando sfidò Pinochet con la maglia rossa fino all’inizio dell’ultimo set. «Non c’era la tv, c’era solo la radio con la cronaca di Mario Giobbe per il GR2» ricorda l’ex tennista. E per lui forse fu meglio così, perché «la radio è verità, è lo strumento più bello che esista, conta solamente quello che dici». 

La modernità di Panatta sta anche nell’aver capito prima di molti altri big del nostro sport che «la comunicazione avrebbe completamente cambiato il mondo sportivo». Oggi, a 73 anni, passa dalla divertente serie di podcast La telefonata con Paolo Bertolucci, prodotta da Fandango per la rivista Tennis italiano, al ruolo di opinionista a tutto campo de La Domenica sportiva sulla Rai. 

«Sono sempre stato un provocatore» prosegue Panatta. «Forse mi hanno chiamato perché spariglio un po’ le carte. Non c’è niente di più bello che sdrammatizzare le cose». Ma non chiedetegli del punto vincente al Roland-Garros 1976, il suo anno magico. «Preferisco parlare della felicità. Quella dura cinque secondi. La sera, dopo la vittoria a Parigi, ero la persona più triste a tavola». Di sicuro, un momento quanto mai felice lo sta vivendo il tennis italiano. Una golden age tricolore che ha l’unico precedente proprio nell’era Panatta, con Paolo Bertolucci, Corrado Barazzutti e Tonino Zugarelli, e Nicola Pietrangeli capitano di quella squadra italiana in Coppa Davis.

«Sinner è come Alberto Tomba» commenta Panatta. «Grazie a lui, ma anche a Berrettini, Sonego e Musetti, si è creato un grande interesse verso il nostro tennis. Avevo capito che Sinner fosse così forte già da un paio d’anni. È il più grande colpitore da fondo campo che io abbia visto negli ultimi vent’anni. Secondo me potrebbe diventare il numero uno del mondo già quest’anno. Djokovic ha quasi 37 anni, Medvedev non è un super fuoriclasse come il serbo, il primato rimarrà una questione tra Sinner e Alcaraz. E forse si può inserire Rune, che gioca molto bene ma ha altre caratteristiche di tenuta mentale».

A differenza di Sinner, che è «un fuoriclasse sia tecnicamente sia mentalmente». La remuntada dell’altoatesino agli ultimi Australian Open, nella finalissima proprio contro Medvedev, è più che un indizio. È il primo Slam maschile conquistato da un italiano a 48 anni di distanza. Dai tempi di Panatta, uno che banale non lo è mai stato. Con la racchetta tra le mani, o tra i chiostri della Cattolica. 

Un articolo di

Francesco Berlucchi

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