Dati, quelli emersi, che appaiono tanto più indicativi quando si considera che l’89% dei rispondenti segnala come le proprie opere siano presenti su una o più piattaforme. In altri termini, lo sfruttamento della musica in streaming è un’esperienza quotidiana per la maggior parte degli artisti. Nel campione, ogni artista è mediamente presente su 3.3 piattaforme. YouTube (71,7%), Spotify (65%) e Apple Music (50%): queste le piattaforme su cui più della metà del campione segnala la propria presenza. Seguono Amazon Music (46%), Deezer (33,7%), Tidal (24%), QoBuz (14,3%), Primephonic (5%), in un ordine che resta coerente per genere e fascia d’età.
Insomma, «il futuro di prosperità e stabilità per gli artisti che promettevano le piattaforme di streaming, con il superamento della pirateria come primo canale di distribuzione musicale, sembra ancora di là da venire», ha commentato Matteo Tarantino, docente di Data, Communication & Society presso l’Università Cattolica, che ha condotto la ricerca con Simone Tosoni, docente di Sociologia dei processi culturali. «Appare quindi auspicabile un’attività di advocacy puntuale ed accurata che fornisca forme di empowerment efficace alla categoria».
Una posizione condivisa da chi questo mondo lo frequenta, come Mario Biondi, intervenuto alla presentazione dell’indagine. «È evidente che il sistema così com’è non funziona. Gli artisti restano relegati al ruolo di comparse in un ecosistema che vede arricchirsi tutti tranne loro. I tempi sono maturi per riformare il settore restituendo centralità alla figura dell’artista. Penso soprattutto a tanti esecutori e interpreti che godono di minori tutele».
Per questo, ha suggerito Gianluigi Chiodaroli, presidente di ITSRIGHT, è necessario avviare «una riforma che consenta agli artisti, attraverso le loro collecting, la possibilità di incassare direttamente dalle piattaforme i propri compensi, in autonomia dai discografici. Solo così si potrà parlare di democrazia dello streaming».
Tra le altre emergenze descritte dall’indagine, c’è la protezione dell’artista, nel senso che si registra anzitutto una generale e diffusa inadeguatezza di tutele contrattuali rispetto ai diritti di streaming, che, combinata a uno scarso accesso alla reportistica relativa alle performance delle proprie tracce e a una generale sfiducia nella trasparenza delle case discografiche come intermediarie, complica ulteriormente il quadro di vulnerabilità dell’artista. Un rischio che aumenta soprattutto per la categoria femminile.
Dal punto di vista della rendicontazione degli stream emerge l’assenza di un’infrastruttura di reportistica chiara e condivisa. Il 45% del campione dichiara di non avere mai ricevuto rendiconti; soltanto il 28% dichiara di averne ricevuti, e il 26.5% non risponde. Rispetto alla formalizzazione di un contratto nel biennio 2021-2023 che regolamenti i compensi streaming si registra una dominante assenza di tutele: il 91.7% del campione ha dichiarato di non beneficiare di tale contratto.
Il campione registra una bassa soddisfazione rispetto all’attuale funzionamento del sistema dei diritti streaming. Rispetto all’equità dell’attuale ordinamento relativo ai diritti streaming, l’80% dichiara che “gli artisti sono penalizzati e non ricevono quanto dovuto”, ossia il livello minimo di soddisfazione. Il 9% ritiene il sistema “sostanzialmente equo”.
Anche il livello di trasparenza delle case discografiche risulta sostanzialmente insoddisfacente, con il 37.3% del campione che le ritiene “per nulla” trasparenti.