Da più di trent’anni il compositore, pianista, maestro Francesco Lotoro, nativo di Barletta, viaggia di paese in paese, di nazione in nazione, alla ricerca della musica scritta e suonata nei campi di concentramento: una vita in costante movimento per tener vivo un patrimonio artistico fra i più preziosi al mondo nella storia del nostro Novecento.
Davanti a un’aula gremita di studenti di Economia e Gestione dei beni culturali e dello spettacolo del campus di Milano dell’Università Cattolica, frequentanti il corso di Letteratura Italiana (II modulo), giovedì 28 novembre, il professor Lotoro, ha raccontato la sua instancabile missione. In pochissimi secondi ha catturato l’attenzione di più di duecento ragazzi tanto che solo il ticchettio del rumore dei tasti, battuti sui pc, per prendere appunti, accompagnava le sue parole. Il maestro ha spiegato, con grande competenza storica e geopolitica, che il fenomeno della letteratura musicale concentrazionaria non inizia con lo scoppio della Seconda guerra mondiale; neppure con l’apertura del primo campo di concentramento, Dachau, nel 1933, ma, addirittura, ha origine fin dal 1919 quando parte l’esperimento concentrazionario dei Gulag.
Analogamente la musica in lager non cessa con la liberazione dai campi nazisti, nel 1945, e neppure con la morte di Stalin nel 1953, ma si protrae fino al 1958, data nella quale si va verso la liberazione degli ultimi deportati rinchiusi nei lager comunisti. Queste coordinate storiche-temporali dimostrano innanzitutto il parallelismo delle due grandi ideologie che hanno contraddistinto il nostro secolo e, soprattutto, la forza della bellezza della parola musicale che non si è fermata davanti a nulla. Lotoro definisce questa musica, letteratura perché «arriva all’esterno», cioè, esiste, fin da subito, «la volontà e il desiderio di comunicare» quel linguaggio al di là del filo spinato; «i lager che consideriamo i siti più impermeabili, più chiusi, come Auschwitz, ma anche Mauthausen – afferma il maestro – erano in realtà, dal punto di vista della fenomenologia musicale, i più spugnosi in tutti i sensi».
Lotoro ha mostrato questo grande «traffico» musicale che entra ed esce dai lager, attraverso un nutrito numero di foto raffiguranti spartiti, pentagrammi, bigliettini di vario genere, alcuni minuscoli sui quali venivano scritte note, altri la cui carta era sottilissima. Il problema, per i regimi totalitari, non era la presenza della musica, in fondo spesso in lager c’erano le orchestre, ma il possibile messaggio di libertà e di denuncia di quelle note. Come il brano Ponar, composta da Alksander Wolkoviscki, canzone scritta per ricordare il cruento massacro consumatosi fra il luglio 1941 e l’agosto 1944, vicino a Vilnius, un brano che, trattandosi di una ninna nanna, riuscì ugualmente a essere eseguita senza essere censurata, non destando alcun sospetto. Gli esempi raccontati sono molteplici, ogni storia è affascinate e toccante, soprattutto perché quella musica è stata conservata, nascosta, custodita nei posti più impensabili, tramandata, spesso da padre in figlio. Tutto questo materiale inedito è un’eredità inestimabile che Lotoro in modo instancabile ha recuperato e ancora recupera per farlo ri-suonare nei maggiori teatri e conservatori del mondo. L’opera di Lotoro continua. Innanzitutto, ha pubblicato Un canto salverà il mondo (Feltrinelli, 2022) che riassume il lavoro svolto finora, quest’anno è uscita la versione più estesa in inglese The lost music of the holocaust; attualmente è impegnato nella realizzazione del Thesaurus, un’opera enciclopedica monumentale per la Treccani che racconterà la storia della musica concentrazionaria. Lotoro, insignito di numerosi premi, ora sogna di vedere completata la ‘Cittadella della Musica Concentrazionaria’, situata a Barletta, in un’ex distilleria, uno spazio dedicato alla musica e quindi al ricordo di quelle pagine così tristi, ma tanto fertili della nostra Storia.
Sul Talmud si legge che «Chi salva una vita, salva il mondo intero», Lotoro sta salvando la musica, e, facendo vibrare ancora quelle note, salverà ognuno di noi: «Perché la Storia appartiene all’uomo, ma l’Arte appartiene all’anima».