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Attesa e una serie di incroci sbagliati: la modernità di Buzzati

28 gennaio 2022

Attesa e una serie di incroci sbagliati: la modernità di Buzzati

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A cinquant’anni dalla scomparsa (28 gennaio 1972), ricordiamo lo scrittore Dino Buzzati con una riflessione del professor Giuseppe Lupo, docente di Letteratura italiana moderna e contemporanea nella Facoltà di Lettere e Filosofia, sul suo romanzo più celebre “ll deserto dei tartari”. Pubblicato nel 1940, è una delle opere letterarie più emblematiche prodotte dal Novecento italiano, divenuto oggi un grande classico tra i più letti e da sempre studiato nelle scuole superiori. È un romanzo che parla di solitudine, attesa, tempo sospeso e soprattutto dello scorrere inesorabile del tempo. Temi più che mai attuali in questi ultimi tempi di restrizioni dovute alla pandemia mondiale da Coronavirus.


Quando fu pubblicato per la prima volta, Il deserto dei Tartari, nell’aprile del 1940, i lettori italiani credevano (o fingevano di credere) nei miti della morte eroica e della patria, circondati da una propaganda che, poco più di un mese dopo, li avrebbe condotti tre le braccia della guerra.

Il libro era un’operazione narrativa contromano: non tanto una provocazione politica ai danni di un regime che aveva puntato ogni credibilità sulla retorica della forza e della vittoria, ma la resa incondizionata di un uomo di fronte al sentimento della fine, la propria fine, come simbolo di una condizione umana, come esperienza di fragilità, come destino incompiuto.

Il teorema narrativo non stava nell’assurdità di un personaggio uscito dai ranghi di un esercito, il tenente Drogo appunto, che tentava di dare un senso alla vita con il gesto supremo che la sua educazione militare potesse concepire: combattere contro il nemico e sconfiggerlo. Stava piuttosto nella vacuità del suo attendere il nemico, spendere l’esistenza in un’azione che solo alla fine si sarebbe rivelata superflua. Io penso che si trovi qui il motivo che ha portato il romanzo a diventare un classico del Novecento: ciò che dovrebbe accadere per dare significato e profondità a un’esistenza continua a non accadere.

È come se gli eroi, con il loro bagaglio di gesti memorabili e di immortalità, siano fuggiti abbandonando gli uomini a un epilogo di incertezza, a un’inquietudine sospesa, a una condizione, insomma, in cui più trascorrono i giorni, i mesi, gli anni e più si affievolisce la speranza di lasciare traccia sulla terra, dove vivere non equivale ad altro che aspettare l’occasione per mettere un segno sulla planimetria di un atlante dove tutto si rivela cancellabile. Il dramma non è nell’assenza del nemico, ma nella latitanza del nemico come latitanza del destino, nell’occasione che non arriverà mai o, se arriverà, ci coglierà asincronici, in un momento altro rispetto a quello in cui ci siamo preparati, nel posto sbagliato e in un’epoca sbagliata.

Questo è il secolo della modernità, raccontato secondo Buzzati: una serie di incroci sbagliati. Sembrerebbe una favola la vita del tenente Drogo (e figlio di un genere fantastico venne considerato al suo apparire nelle librerie il romanzo), invece è un paradigma tragico, un feroce scherzo che riserva il futuro, tipico di un periodo, come il Novecento, dove Dio è morto (o ha smesso di parlare), dove si può fare a meno dei maestri, dove sono stati uccisi i padri e il paesaggio, pieno di eroi inutili, assomiglia alla “terra desolata” raccontata da Eliot.

 

Un articolo di

Giuseppe Lupo

Giuseppe Lupo

Docente di Letteratura Italiana Contemporanea - Facoltà di Lettere e filosofia

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