NEWS | MISSION EXPOSURE

Casa Karibu, imparare l’accoglienza

14 settembre 2021

Casa Karibu, imparare l’accoglienza

Condividi su:

Accogliere ed essere accolti con la semplicità che regala la vita di tutti i giorni, fatta di piccole cose come fare la spesa, preparare il caffè o guardare insieme la televisione. Questa è l’esperienza che hanno vissuto Elena Maria De Nittis e Giulia Grisolia, 22 anni, studentesse all’Università Cattolica, rispettivamente di Comunicazione per l’impresa, i media e le organizzazioni complesse (Cimo) e di Politiche per la cooperazione internazionale allo sviluppo. Questa estate, hanno deciso di trascorrere tre settimane all’insegna del volontariato grazie al programma Mission Exposure, realizzato dal Centro Pastorale della Cattolica e dal PIME, in collaborazione con il Centro di Ateneo per la Solidarietà Internazionale.

Mission Exposure, come recita il nome, invita gli studenti a esporsi in contesti dove ci si prende a cuore un bisogno sociale, per toccarlo con mano e capire che cosa questo significa per la propria crescita personale.

Un articolo di

Valentina Stefani (testo) e Marta Carenzi (foto)

Condividi su:


Casa Karibu – che in swahili significa benvenuti – è stata la loro casa a Rimini. La struttura, che fa parte del circuito dell’Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII, ospita ragazzi minori non accompagnati provenienti da vari paesi come Sud Est asiatico, Albania e Africa. È una delle strutture dedicate del progetto SAI del Comune di Rimini.

Fare la spesa, occuparsi delle faccende domestiche, insegnare l’italiano, guardare un film, giocare a carte, uscire la sera. Il compito delle studentesse è stato quello di affiancamento nelle attività di tutti i giorni, anche le più semplici. «Quando pensi alla missione umanitaria – racconta Elena – ti aspetti di fare grandi cose, di salvare qualcuno. Ci siamo invece trovate a dare un aiuto prezioso nelle piccole cose quotidiane».


Elena studia marketing e comunicazione, per lei la scelta di vivere questa esperienza di volontariato è stata dettata da una «spinta emozionale». Voleva comprendere maggiormente quello che accade nel mondo attraverso la conoscenza diretta del vissuto delle persone.

Giulia, che studia cooperazione internazionale allo sviluppo, voleva «iniziare a mettere le mani in pasta», sperimentarsi sul campo. «È stato molto bello aver fatto questa esperienza in Italia – racconta – da una parte è più facile perché sei dentro il tuo paese e conosci la lingua, ma dall’altra ti rendi conto che il ‘diverso’ non è soltanto lontano, è anche qui vicino, vive con noi».


Tra i ragazzi ospitati da Casa Karibu c’è chi è arriva in Italia dopo mesi di viaggio, chi via mare, chi in aereo e possiede già un passaporto, chi ha parenti che vivono nel nostro Paese e si ricongiunge alla famiglia. Le casistiche sono molto diverse. A spiegarcelo è Francesco Provenzano, uno degli educatori che lavorano nella struttura: in base alla storia e alla situazione di ogni singolo ragazzo, con il supporto di un avvocato esperto di immigrazione, viene valutato se richiedere il documento “minore età” o effettuare una richiesta di protezione internazionale. Con quest’ultima i ragazzi hanno la possibilità di potere proseguire nel circuito di accoglienza SAI (Sistema di protezione per titolari di protezione internazionale e per i minori stranieri non accompagnati, ora SAI – Sistema di accoglienza e integrazione), che significa poter essere ospitati in una struttura anche una volta raggiunti i 18 anni e fare un certo tipo di percorso formativo per ottenere, ad esempio, un diploma professionale.


L’unico corso obbligatorio a Casa Karibu è quello di italiano, ma l’obiettivo è fare in modo che gli ospiti frequentino la scuola per riuscire a integrarsi e a imparare una professione come quella di saldatore, elettricista o cameriere.


«Il primo giorno è stato tosto, la sera volevamo scoppiare a piangere» – raccontano le ragazze. «Ce lo avevano detto che restando in Italia non avremmo avuto uno shock culturale, ma uno emotivo ed è quello che abbiamo sperimentato, perché si passa da una situazione protetta a una non protetta».

Incontrare l’“altro” è un percorso che richiede fatica e impegno. Durante gli incontri preliminari alla partenza – tenuti da Monsignor Claudio Guliodori, Assistente Ecclesiastico Generale dell’Ateneo, da educatori e referenti del Pime e docenti esperti – le studentesse sono state formate ad affrontare al meglio l’esperienza di missione, a capire la relazione con l’altro e a come viverla, cambiando prospettiva: «Ci hanno insegnato ad avere uno sguardo di comprensione verso l’altro – raccontano – perché l’accoglienza non è immediata, è una cosa che si impara e, a volte, c’è bisogno di uno sforzo perché non sempre si è predisposti».


«In queste settimane abbiamo iniziato a parlare senza verbi anche tra di noi, a usare poche parole semplici, comprensibili per tutti», raccontano le ragazze sorridendo. Uno dei momenti che ricordano con più affetto è quando insieme a due ospiti della casa, Mohammed e Mamadou, hanno disegnato un campo da calcio: «noi insegnavamo le parole dello sport in italiano, loro le regole».

Ma i momenti più emozionanti, per le studentesse, sono quelli in cui i ragazzi si sono aperti con loro: «quando di punto in bianco tirano fuori le loro storie, sono come frecce», racconta Giulia, «quando ti parlano dei loro viaggi, delle loro paure e delle loro speranze, questa è la cosa più bella, vale tutta l’esperienza», aggiunge Elena.


«A volte non lo vuoi incontrare il ‘diverso’, perché sei così radicato alla tua cultura, ti piace e ci vuoi vivere – dice Elena – e invece a volte tocca staccarti per andare incontro all’altro e capire come la nostra cultura si può avvicinare alla loro e camminare di pari passo in un paese che li accoglie».

Imparare a guardare oltre le etichette e a superare i propri pregiudizi è la lezione più grande. Insieme a Casa Karibu, Elena e Giulia hanno conosciuto altre realtà della comunità Papa Giovanni XXIII a Rimini. Tra queste c’è Casa Mondo che ospita migranti adulti: «La cosa che mi ha sorpreso di più è come siamo riusciti comunque a capirci nonostante le enormi difficoltà linguistiche. Gli ospiti della casa ci hanno insegnato con i gesti a cucinare il ciapati. E guai a chiamarle piadine!», racconta Elena.

Durante la loro permanenza, Elena e Giulia hanno anche partecipato a iniziative con l’unità di strada, incontrando persone senza fissa dimora e donne vittime di tratta. «Lì vedi la persona, non vedi il clochard o la prostituta – dicono – e a volte basta un sorriso per entrare in relazione. Perché siamo uguali, siamo umani».

Newsletter

Scegli che cosa ti interessa
e resta aggiornato

Iscriviti