Al di là degli incerti esiti dell’azione penale intentata in Italia, esiste una responsabilità internazionale dello Stato egiziano per il brutale assassinio del ricercatore universitario Giulio Regeni? E, in caso di risposta affermativa, quali sarebbero i rimedi previsti per risolvere l’eventuale controversia tra Italia ed Egitto?
Un caso intricato, pieno di misteri e depistaggi sul quale Martina Buscemi, ricercatrice di Diritto Internazionale presso la Facoltà di Scienze politiche dell’Università degli Studi di Milano, ha cercato di fare chiarezza, come avvenuto nel corso dell’audizione davanti la Commissione parlamentare di inchiesta sulla morte di Giulio Regeni.
Dialogando con gli studenti dell’Università Cattolica, mercoledì 22 febbraio è intervenuta all’incontro “Il caso Regeni alla luce degli obblighi in materia di tutela dei diritti umani”, nell’ambito del ciclo “L’ordinamento internazionale in tensione. Casi e questioni”, curato da Gabriele Della Morte, ordinario di Diritto internazionale presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università Cattolica.
Facciamo un passo indietro. Chi era Giulio Regeni? Cresciuto a Fiumicello (Udine), era un dottorando italiano dell’Università di Cambridge che si trovava al Cairo per svolgere una ricerca sui sindacati indipendenti egiziani degli ambulanti. Scomparso il 25 gennaio 2016, il suo corpo, che presentava evidenti segni di tortura, fu ritrovato senza vita il 3 febbraio successivo. Le autorità egiziane garantirono inizialmente una “piena collaborazione” per fare luce su quanto accaduto, ma tale disponibilità non fu mai effettiva: gli investigatori italiani poterono interrogare pochi testimoni per brevissimo tempo, le riprese video della stazione della metropolitana dove Regeni era stato visto per l’ultima volta andarono disperse poiché sovrascritte, furono negati i traffici di cella del quartiere, della metropolitana e della zona in cui fu ritrovato il corpo. A ciò va aggiunto che i quattro ufficiali egiziani indagati in Italia per l’omicidio risultano ancora oggi irreperibili perché la magistratura egiziana non ne ha fornito gli indirizzi di domicilio, né ha concesso ai magistrati italiani di essere presenti ai loro interrogatori nonostante le richieste dalla Procura di Roma inoltrate con apposite rogatorie.
Il movente del violento interrogatorio e dell’omicidio, secondo la Procura di Roma, fu il sospetto – del tutto infondato – che Giulio Regeni intendesse contribuire a fomentare una rivoluzione. In realtà stava portando avanti una “ricerca partecipata” sul ruolo dei sindacati degli ambulanti in Egitto, un argomento sensibile per il Governo locale. Per questa ragione la sua presenza fu forse interpretata da parte degli agenti egiziani come quella di una spia, e quindi classificata come una minaccia all’ordine pubblico (senza che ciò, ove mai ci fosse il bisogno di specificarlo, possa in alcun modo giustificare quanto avvenuto).
In un primo momento, le autorità egiziane negarono qualsiasi coinvolgimento nel sequestro e nelle torture, adducendo motivazioni non convincenti tese a ricondurre la morte a un incidente stradale. L’autopsia italiana rivelò, invece, che fu sottoposto a crudeli torture e che il decesso avvenne a causa di un’azione violenta. Come ha ribadito anche il Parlamento europeo non cessa il “rammarico per il continuo rifiuto delle autorità egiziane di fornire alle autorità italiane tutti i documenti e le informazioni necessari per consentire un'indagine rapida, trasparente e imparziale sull'omicidio di Giulio Regeni, conformemente agli obblighi internazionali dell'Egitto”.
Alla luce di tali considerazioni, e al di là di quanto potrebbe eventualmente emergere dal prosieguo dell’azione giudiziale intentata davanti la magistratura italiana (il condizionale è d’obbligo, considerato il sostanziale “stallo” della suddetta azione per la mancata indicazione delle informazioni necessarie all’avanzamento del processo), resta da valutare se e in che misura l’Egitto possa essere ritenuto internazionalmente responsabile per violazione del divieto di tortura, una norma fondamentale e inviolabile per la comunità internazionale.
La norma è sancita dalla Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura e altre pene o trattamenti inumani e degradanti del 1984 (l’Egitto vi ha aderito nel 1986), un Trattato che stabilisce obblighi positivi e negativi che incombono sugli Stati, tra cui quello di adottare provvedimenti procedurali per reprimere la tortura mediante “un’inchiesta tempestiva e imparziale” (articolo 12 della Convenzione), e quello di cooperare con gli Stati coinvolti (articolo 9 della Convenzione).
L’Egitto, pertanto, potrebbe incorrere in responsabilità internazionale “diretta” per gli atti di tortura commessi, qualora fosse provata la riconducibilità di tali atti ad organi dello Stato egiziano (per esempio, agenti di polizia o dei servizi segreti), in quanto lo Stato risponde delle loro azioni in virtù del rapporto organico. Ma l’Egitto potrebbe incorrere anche in responsabilità internazionale per la violazione dei semplici obblighi positivi (cioè delle azioni che uno Stato è tenuto a compiere nel caso in cui avvenga un atto di tortura in un territorio sotto la sua giurisdizione), ed in particolare dell’obbligo di condurre un’inchiesta immediata e imparziale, tenuto conto delle numerose incongruenze e depistaggi relativi alle indagini.
Ma come procedere, in concreto? La violazione di uno o più dei summenzionati obblighi potrebbe essere fatta valere dall’Italia, ricorrendo ai mezzi di risoluzione delle controversie previsti dall’articolo 30 della richiamata Convenzione contro la tortura. Tale norma contiene una “clausola compromissoria” che, previo espletamento di un tentativo di negoziato, permette alle parti della Convenzione di risolvere le controversie mediante arbitrato. Qualora la richiesta unilaterale di arbitrato non fosse accolta, o qualora venisse a mancare la cooperazione per l’organizzazione dell’arbitrato, trascorsi sei mesi dalla data di richiesta del medesimo, le parti potrebbero infine deferire la controversia alla Corte internazionale di giustizia, il massimo organo giurisdizionale della Comunità degli Stati, con sede a L’Aja.
Tuttavia, le azioni intraprese fino ad ora dall’Italia non sembrano rientrare né nell’esercizio della protezione diplomatica – un istituto di diritto internazionale mediante il quale uno Stato ha la facoltà, ma non l’obbligo, di agire a tutela di un proprio cittadino che sia stato leso dalla condotta illecita di uno Stato straniero – né in un’azione diretta a precostituire i presupposti di un contenzioso sulle violazioni della Convenzione contro la tortura. Ad esempio, il richiamo per “consultazioni” dell’ambasciatore italiano dal Cairo in seguito alla scomparsa di Regeni non può essere considerato come una contromisura adottata dall’Italia per fare valere la responsabilità dell’Egitto.
In fondo, come ha osservato il professor Della Morte, la drammatica vicenda del giovane ricercatore italiano rappresenta un involontario e tragico misuratore: quello che stima la volontà di proteggere i diritti umani a fronte dell’esigenza di preservare le relazioni politico-economiche tra gli Stati interessati.