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Coesione, investimenti e nuove tecnologie: da qui si comincia per vincere la povertà

18 ottobre 2023

Coesione, investimenti e nuove tecnologie: da qui si comincia per vincere la povertà

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Povertà non è solo sinonimo di basso reddito.

È anche «mancanza di istruzione, isolamento sociale, impossibilità di accedere ai servizi, il non essere mai padroni del proprio tempo: sono, queste, dimensioni sempre più rilevanti della povertà, su cui la ricerca si sta orientando per esplorarne caratteristiche e confini, con l’obiettivo di trovare soluzioni utili al suo contenimento». Lo ha ben spiegato il professor Enrico Fabrizi, docente di Politica Economia della Facoltà di Economia e Giurisprudenza che, insieme alla professoressa Chiara Mussida del Dises - Dipartimento di scienze economiche e sociali dell’Università Cattolica e in collaborazione con l’Associazione italiana per lo Studio dei Sistemi Economici Comparati (Aissec) ha organizzato il workshop “Poverty and Inequality: Empirical Evidence, Policies, and Measurement Issues” che si è tenuto nel campus di Santa Monica di Cremona e ha coinvolto esperti di caratura nazionale e internazionale.

Quattro sessioni per presentare lavori di autori italiani e internazionali, tra cui Anne-Catherine Guio del Luxembourg Institute of Socio-Economic Research (Liser), e Andrea Brandolini, della Banca d’Italia, su come si misura la povertà in termini multidimensionali, sulla valutazione di politiche di contrasto alla povertà, sul ruolo delle disparità di genere e dell’istruzione, senza trascurare le questioni macroeconomiche, come la distribuzione funzionale del reddito. Del resto, le dinamiche economiche sono ormai globalizzate: la crisi finanziaria del 2008 prima e la pandemia del 2020 poi, hanno segnato un inasprimento della povertà in molte parti del mondo.

«A fasi di crisi, seguono fasi di ripresa. Le cose non tornano mai come prima, però: la geografia, anche sociale della povertà cambia» spiega il professor Fabrizi. «Per l’Italia il rischio di povertà nel 2022, ultimo dato disponibile, è un po’ più alto del 2008 (20% contro 18%), ma in mezzo ci sono stati periodi peggiori, soprattutto all’inizio del decennio e nel 2020 (con tassi fino al 26%). Mancano ancora i dati per capire quale effetto stia avendo la nuova fase difficile aperta dalla guerra in Ucraina e dall’inflazione che ne è seguita». 

La ricerca scientifica può dare un contributo nella lotta contro la povertà?
«Il primo impegno di un’Università è sempre nello studio e nella ricerca. Capire chi sono i poveri, di cosa hanno bisogno, valutare l’efficacia degli strumenti che vengono utilizzati per contrastare la povertà. Ecco: la ricerca fornisce strumenti e valutazioni, per assumere scelte efficaci. In particolare poi, per un’università cattolica povertà e giustizia sociale sono temi sempre al centro dell’attenzione. Ci sono categorie particolari su cui stiamo concentrando gli sforzi. Penso in particolare ai così detti NEET, ossia ai giovani tra i 15 e i 34 anni che non studiano e non lavorano. In Italia sono più di tre milioni, una cifra altissima. Una seconda linea di ricerca riguarda la relazione tra povertà, disuguaglianza e le dinamiche famigliari. La situazione economica difficile di molte famiglie giovani ha un impatto considerevole anche sulla denatalità, un altro problema con cui le nostre comunità devono fare i conti. L’elenco non è esaustivo, andrebbero citati anche i progetti dei colleghi di Scienze agrarie per la riduzione della povertà alimentare nei paesi in via di sviluppo». 

Professore, si può affermare che in questo ultimo decennio siano emerse nuove forme di povertà?
«Purtroppo sì. Nei decenni dello sviluppo economico dopo la guerra, ci eravamo abituati all’idea che il lavoro proteggesse dalla povertà: oggi non sempre è così. Lavoro precario, intermittente, salari bassi. Un lavoratore solo per famiglia spesso non basta: secondo la definizione Eurostat l’11% dei lavoratori è a rischio di povertà, contro un rischio del 20% per la popolazione generale. Ci sono categorie tradizionalmente più esposte al rischio di povertà come gli anziani soli, ma anche categorie “nuove”: genitori single con figli a carico e immigrati. Il rischio di povertà per le famiglie mono-parentali è del 30% contro il 20% della media nazionale, mentre il rischio di povertà degli stranieri regolarmente residenti è doppio rispetto agli italiani (35% contro 17%). Come ha sottolineato Andrea Brandolini di Banca d’Italia, l’estrema concentrazione di ricchezza in poche mani è una questione delicata per gli equilibri del potere e per la democrazia anche prescindendo da questioni di equità».

Dal mondo della ricerca emergono possibili soluzioni per venire in soccorso alle vecchie e alle nuove sacche di povertà?
«La prima risposta alla povertà è sempre il lavoro, a patto che garantisca un minimo di stabilità e salari adeguati. Dove il lavoro c’è, le cifre relative al rischio di povertà si abbassano. Ci sono poi le politiche, a livello nazionale e locale. Gli effetti del reddito di cittadinanza sono stati analizzati da diverse relazioni al convegno: effetti che ci sono sicuramente stati, ma non potremo sapere gli effetti nel medio e lungo periodo, visto che è già stato abbandonato. Un altro problema, che riguarda più il livello locale è quello che in gergo chiamiamo del non take-up, ossia il fatto che chi ha diritto a prestazioni o sostegni non riesca ad esercitarlo. La burocrazia a volte è complessa e le persone che vivono nell’indigenza hanno spesso un’istruzione limitata, difficoltà a spostarsi o ad accedere alle piattaforme online attraverso cui i servizi vengono erogate. Pensiamo ad esempio agli anziani soli».

Possiamo guardare con fiducia al futuro?
«I tempi sono difficili, nel breve periodo le prospettive non sono buone. Non dobbiamo dimenticare però i risultati ottenuti in passato e ispirarci a quelli. Grandi stagioni di riduzione della povertà le abbiamo già vissute e superate. Per uscire da questa fase un po’ complicata servono coesione sociale, investimenti mirati, nuove tecnologie». 

Un articolo di

Sabrina Cliti

Sabrina Cliti

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