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Community e parrocchie, un matrimonio possibile

20 maggio 2022

Community e parrocchie, un matrimonio possibile

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Interessate a coglierne le opportunità e allo stesso tempo preoccupate dei rischi. Nei confronti dei media digitali le parrocchie italiane hanno un atteggiamento curioso ma molto variegato e non privo di contraddizioni. Ci sono quelle che li hanno sperimentati, alcune anche con un successo sorprendente, e non tornerebbero più indietro, e quelle che invece conservano un atteggiamento «difensivo». Orientamento che è stato attenuato ma non cancellato nemmeno dalla pandemia, durante la quale i parroci sono stati costretti a utilizzare le nuove tecnologie pur di non perdere il contatto coi fedeli. Fossero i partecipanti alla messa (che nel primo più severo lockdown non è stato possibile celebrare), o i ragazzi del catechismo, o i volontari dei gruppi di aiuto. È quanto emerge dalla ricerca “Generare relazioni di comunità nell’era del digitale. La sfida delle parrocchie prima e dopo la pandemia”, condotta da un pool interdisciplinare di ricercatori dall’Università Cattolica. 

L’indagine, finanziata interamente dall’Ateneo, «rientra in un progetto di ricerca più ampio sul rapporto tra tecnologia e l’umano», e intende rappresentare nel centenario della fondazione dell’Università «un segnale di restituzione alle comunità ecclesiali per il sostegno che hanno dato alla sua nascita»,  hanno sottolineato la prorettrice vicaria, Antonella Sciarrone Alibrandi e l’assistente ecclesiastico generale, monsignor Claudio Giuliodori, aprendo il convegno, venerdì 20 maggio, durante il quale sono stati presentati e discussi i risultati.          

Come ha spiegato Pier Cesare Rivoltella, direttore del CREMIT (Centro di Ricerca sull'Educazione ai Media all'Innovazione e alla Tecnologia), commentando le risposte fornite dagli stessi parroci, prevale un tipo di «utenti abbastanza tradizionali». Tuttavia, benché prediligano ancora gli old media (televisione e cinema), i fedeli non si astengono dal frequentare i nuovi. I social fanno parte delle loro abitudini ordinarie: «solo il 10% di loro dichiara di non usare WhatsApp e c’è un 32% che si dimostra multitasking» - ha fatto presente Rivoltella. Tuttavia, anche quando impiegano Facebook o Twitter, una larga maggioranza (il 68%) lo fa «per informare più che per comunicare». Come in altri ambiti, anche in questo caso la pandemia è stato un grande acceleratore di processi. «Almeno un 14% da una posizione di basso consumo e da un atteggiamento difensivo, di protezione, è passato a un uso consistente». Ciononostante «difficilmente pensano alla tecnologia in funzione della pastorale e della comunità» - ha sottolineato Rivoltella. 

L’uso che le 25mila parrocchie distribuite in oltre 220 diocesi fanno dei media appare molto diversificato. L’indagine, come ha illustrato Lucia Boccacin, responsabile scientifico della ricerca, ha individuato tre grandi categorie. «Nelle parrocchie tradizionali con relazioni pragmatiche», preoccupate soprattutto di offrire servizi ai fedeli (dalla messa all’oratorio ai sostegni materiali per le persone in difficoltà), di piccole dimensioni, in cui il parroco ha un’età superiore a 60 anni - la tipologia più cospicua (45,3% di quelle esaminate), «le tecnologie digitali sono usate per diffondere informazioni molto meno per incentivare relazioni e connessioni». Nelle parrocchie dove esistono già rapporti tra le persone improntate alla cooperazione, corrispondenti a comunità di grandi dimensioni, rette da parroci con un’età media tra i 50 e i 59 anni - la tipologia minoritaria, 23,9% del campione, «il ricorso alle tecnologie digitali è elevato e le si guarda con un atteggiamento favorevole». Il loro uso è addirittura «frequente» ed è indirizzato alla costruzione di relazioni in oltre un terzo delle comunità analizzate dalla ricerca dove operano i parroci con un’età inferiore ai 50 anni.

«In genere - ha detto Camillo Regalia, direttore del Centro di Ateneo Studi e Ricerche sulla Famiglia dell’Ateneo - i parroci che sono generativi a livello sociale e hanno uno sguardo attento nei confronti delle nuove generazioni, considerano le tecnologie utili per migliorare la qualità del servizio pastorale».

Conta dunque la sensibilità del parroco. Ma non solo. Un’altra discriminante riguarda la struttura organizzativa della parrocchia. «Quelle più strutturate sono anche quelle che usano la tecnologie per una vastità di scopi» - ha osservato Chiara Paolino, docente di Organizzazione aziendale in Cattolica. 

«In ogni caso dove sono stati impiegati con successo, i media digitali hanno mostrato di rafforzare in maniera significativa i legami all’interno dei gruppi, fatto acquisire nuove competenze relazionali, dato risposte a persone, che per le loro caratteristiche soggettive, non avevano accesso ai luoghi parrocchiali: dagli anziani ai disabili» - ha messo in luce la sociologa dell’Ateneo Donatella Bramanti.

Il convegno è stata anche l’occasione per immaginare soluzioni operative.
«Occorre avviare un percorso di alfabetizzazione digitale che non lasci indietro nessuno», ha suggerito Vincenzo Corrado, direttore dell’Ufficio nazionale delle comunicazioni sociali della Cei.

Un percorso che deve partire proprio dalle comunità di base, della cui vitalità è convinto monsignor Luca Bressan, vicario episcopale per la Cultura, la carità, la missione e l’azione sociale della diocesi di Milano. «Chi ne pronosticava la fine già decenni fa nel frattempo è morto, mentre le parrocchie ci sono ancora» - ha detto con una battuta. «Certo, i numeri ci dicono che non torneremo più ad essere quelli di un tempo, ma le start up ecclesiali si chiameranno ancora parrocchie». 

A guardare con ottimismo i risultati dell’indagine è stato Mario Morcellini, direttore dell’Alta scuola di comunicazione e media digitali Unitelma Sapienza: «Il Covid 19 poteva essere la fine delle parrocchie, invece i parroci sono stati capaci di fare comunità altrove e in altri modi, grazie al digitale. Mi sembra un segno che fa ben sperare per il futuro non solo della Chiesa ma anche del nostro Paese».

Dalla fotografia dei ricercatori alle buone pratiche delle singole parrocchie. Molti casi singoli sono stati analizzati dall’indagine e la giornata di dibattito ha ospitato due parroci e un vice-parroco che hanno raccontato la loro esperienza di cambiamento durante e dopo la pandemia. Don Davide Caldirola, parroco della Madonna di Fatima a Milano, ha raccontato la difficoltà, condivisa da molte altre parrocchie, di utilizzare le tecnologie per gestire le comunicazioni manifestando l’esigenza di «un “mediatore culturale” che aiuti a tenere insieme il vecchio e il nuovo, due “maniche” che portino consapevolezza e diano spazio a culture diverse».

Diverso il caso della parrocchia Madonna di Pompei di Torino guidata dalla fine del 2019 da don Luca Peyron, anche assistente pastorale dell’Università Cattolica, che non ha avuto il tempo nemmeno di conoscere i fedeli quando è esplosa la pandemia. Ma con atteggiamento resiliente don Peyron ha fatto tesoro dell’esperienza maturata come cappellano universitario in città «per mettere insieme in parrocchia le diverse generazioni. Grazie ai giovani abbiamo messo in piedi un machine learning dove i ragazzi insegnavano agli anziani ad usare le nuove tecnologie e gli anziani hanno trasmesso la loro esperienza. Il risultato è stato che gli uni hanno imparato l’importanza della sapienza nell’utilizzare alcuni strumenti e gli altri la meraviglia nell’imparare qualcosa di nuovo». La sfida teologica «è al tempo stesso pastorale ed ecclesiologica nella misura in cui occorre aiutare la Chiesa a ripensare se stessa nella metamorfosi digitale» - ha concluso don Peyron.  

C’è poi il caso particolare della parrocchia San Michele Arcangelo a Busto Arsizio dove don Alberto Ravagnani è vice-parroco e ha avviato una singolare sperimentazione all’inizio del primo lockdown mettendo online un video al giorno e creando, in maniera del tutto inaspettata, un circolo virtuoso di relazioni. Centinaia di migliaia di visualizzazioni per un video sulla preghiera. Dai video ai podcast, a un libro, don Alberto ha visto che «la Chiesa si è seduta accanto a chi vede Sanremo e segue gli youtuber. Forse la mia capacità di parlare alle folle è a servizio della Grazia. Vorrei portare il mondo dentro l’oratorio. Oggi c’è una realtà parallela alla Chiesa, alle forme abituali di associazioni e movimenti, che è una fraternità ecclesiale altrettanto valida». 

«Itinerari inediti, possibilità di sperimentazione, scenari che solo prima della pandemia ci sembrava impossibile immaginare. Criticità nel tenere il passo ma che ci pongono domande che sfidano l’intelligenza e la capacità di porsi verso gli altri in modo diverso» - ha dichiarato Lucia Boccacin.
 

Un articolo di

Francesco Chiavarini e Emanuela Gazzotti

Francesco Chiavarini e Emanuela Gazzotti

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