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Con i detenuti del carcere di Bollate: “Fine pena quando?”

13 dicembre 2022

Con i detenuti del carcere di Bollate: “Fine pena quando?”

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Entro in carcere sull’attenti, vigilando con timore e curiosità quei lunghi corridoi che andiamo calpestando in avvicinamento alla saletta dove ad attenderci ci sono i detenuti che i miei compagni di studi hanno già avuto occasione di incontrare qualche settimana prima.

Ma per me è diverso. Per me, che in carcere ci vado per la prima volta, l’imperativo del “sospendere il giudizio” sembra quasi scontato a dirsi, ma piuttosto difficile a realizzarsi. Io i miei bei preconcetti me li tiro dietro, me li trascino all’interno delle mura della II Casa di Reclusione di Milano, sfidante che “sarà casomai l’esperienza a farmi cambiare idea”.

Una delle cose che più apprezzo del Master in Relazioni d’aiuto in contesti di Cooperazione e Sviluppo, è che le lezioni sono costantemente affiancate dalla messa in pratica e dall’osservazione in presa diretta di quanto studiato. Le diverse teorie sulla cooperazione nazionale, e andiamo a visitare centri diurni, CAS e laboratori sperimentali per la riduzione del danno in giro per l’Italia. Teatro sociale, sport e resilienza, e ci ritroviamo al centro sportivo Dainelli a sperimentarci sul campo in una partita di calcio con la squadra di giovani disabili cognitivi del progetto Tukiki. Giustizia riparativa e politiche di reinserimento sociale, ed eccoci qui, al carcere di Bollate, uno dei pochi esempi virtuosi di struttura detentiva in Italia effettivamente atta alla riabilitazione delle persone detenute.

Ci dividiamo a gruppetti, due, massimo tre persone in ciascuno, e ascoltiamo per una ventina di minuti le storie di chi, da dentro, ha dato la sua disponibilità a incontrarci oggi. Guardo Corrado negli occhi mentre parla disinvolto, ha uno sguardo tenue e una voglia irreprimibile di raccontarsi, di renderci testimoni della sua esperienza in struttura, dell’arrivo, della stasi, delle attività alle quali si dedica quotidianamente, delle visite settimanali delle figlie che, “nonostante tutto”, lo vengono a trovare con regolarità, facendogli piombare addosso ogni giorno la responsabilità del suo “essere rimasto padre” oltre che detenuto.

Tempo esaurito. Prossima attività. Le ore in prigione: l’arco di una vita prescritto da altri in ogni più intimo dettaglio. Facciamo un giro della struttura, abbiamo tante domande, siamo curiosi, bombardiamo di quesiti più o meno irriverenti i detenuti che ci accompagnano alla sala dove pranzeremo tutti assieme. Siamo curiosi. Vogliamo sapere, portare fuori quello che vediamo accadere lì dentro, fare paragoni con quanto appreso a lezione. Senza paura.

Michele ha preparato gli gnocchi alla romana, Biagio la parmigiana, e noi ci ritroviamo a nostro agio nel conversare amabilmente con i detenuti che di quelle mura hanno fatto (obbligatoriamente) la propria casa, chi da qualche mese, chi da decenni ormai.

“Cos’avranno fatto?”; “Perché?”; “Ne valeva la pena?”; “Ma come facciamo a stare tranquilli che ora siano persone diverse?”; “Si può cambiare in prigione, lo si può fare davvero?”

Li osservo parlare e non posso fare a meno di interrogarmi su quella che deve essere la loro opinione di noi. Mi domando come ci vedano, se anche loro ci stiano scrutando provando a non dare nell’occhio come so che, ciascuno di noi gruppo Master, sta segretamente facendo, nel simulare distrattamente il contrario.

Ci spostiamo in teatro, dove incontriamo Beatrice e Serena, coordinatrici della Cooperativa Sociale Le Crisalidi, che gestisce laboratori di scrittura creativa e teatro aperti anche ad esterni. Ci stiamo due ore, su quel palco insieme ai detenuti. Ci insegnano, ci fanno vedere, ci aiutano ad orientarci in uno spazio per noi sconosciuto, per loro pane quotidiano. Ridiamo, gridiamo, ci buttiamo per terra e saltiamo, corriamo, sudiamo, stiamo in relazione abbattendo per un istante quel muro invalicabile del “noi fuori e voi dentro”.

È il compleanno di Paolo: Amedeo ha preparato una torta e Franco ben tre salami al cioccolato da condividere. Soffiamo le candeline tutti insieme, ispirando quella stanchezza rigenerante ed espirando i nostri pregiudizi, che decidiamo di consegnare al pavimento, deposti nella loro comprovata infondatezza.

Usciamo dal carcere a passo stanco, pensierosi e affamati di giustizia. Una giustizia vera, non punitiva e basta, ma che davvero persegua quegli ideali democratici dei quali tanto orgogliosamente ci enunciamo eredi. Una giustizia che non millanti di essere riabilitativa confinando le persone ad una cella per la durata intera della detenzione, ma che si faccia carico della responsabilità costituzionale di rendere il carcere un luogo che deve “tendere alla rieducazione del condannato” (Art. 27 co. 3).

 

 


Foto di Tim Hüfner su Unsplash

Un articolo di

Gaia Bugamelli

Master in Relazioni d'aiuto di Ateneo in contesti di sviluppo e cooperazione nazionale e internazionale

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