«Il magistrato deve essere un uomo di cultura a tutto tondo, non solo giuridica, ma anche umanistica e scientifica, un responsabile valutatore del fatto e interprete del diritto, un decisore di qualità, libero da vincoli e condizionamenti che non siano la legge, la ragione e l'etica del limite e del dubbio. Non va dimenticato che la giustizia ha una dimensione relazionale perché le ingiustizie esigono, prima della loro repressione, di essere conosciute, descritte, comunicate, cioè “narrate”».
È questo un passaggio chiave del libro di Giovanni Canzio e Francesca Fiecconi, Giustizia. Per una riforma che guarda all'Europa (Vita e Pensiero, 2021) - e primo volume della nuova collana “Piccola biblioteca per una Paese normale” - presentato il 10 novembre durante un incontro promosso dall'Alta Scuola “Federico Stella” sulla Giustizia Penale (ASGP).
Insieme agli autori sono intervenuti autorevoli esponenti delle varie branche del diritto: lo storico Stefano Solimano anche in veste di preside della Facoltà di Giurisprudenza, il costituzionalista Renato Balduzzi, l’amministrativista Aldo Travi anche in veste di direttore della Scuola di Specializzazione per le professioni legali, il civilista Antonio Albanese anche in veste di direttore del Dipartimento di Scienze giuridiche, i penalisti Gian Luigi Gatta del Comitato direttivo della Scuola Superiore della Magistratura, e Matteo Caputo, con la partecipazione della politologa dell’Università di Bologna Patrizia Pedersoli e del direttore editoriale di “Vita e pensiero” Aurelio Mottola, coordinati da Gabrio Forti, direttore dell’Alta Scuola “Federico Stella” sulla Giustizia Penale.
L’incontro si è aperto con gli interventi del professor Stefano Solimano, preside della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università Cattolica del Sacro Cuore e docente di Storia del diritto medievale e moderno, e del dottor Aurelio Mottola, direttore editoriale della casa editrice Vita e Pensiero, il quale ha illustrato le ragioni dell’inserimento del volume nella collana «Piccola Biblioteca per un Paese Normale»: significativamente inaugurata nel periodo post-pandemico, la collana ha lo scopo di raccogliere contributi e saggi che siano utili a sradicare quella cultura “stanca”, che si adagia su prassi – sociali, politiche, giudiziarie – sedimentate nel tempo e che «impediscono all’Italia di essere», appunto, un «Paese normale», con la proposta di «coraggiose e concrete prospettive per il futuro».
Riprendendo il pensiero di Daniel Kanheman, espresso nel volume Rumore. Un difetto del ragionamento umano, il professor Gabrio Forti – docente di Diritto penale e Criminologia presso l’Università Cattolica e direttore dell’Alta Scuola “Federico Stella” sulla Giustizia Penale – che ha presieduto l’incontro, ha messo altresì in luce la singolare interconnessione tra «crisi sociale post-pandemica e crisi della magistratura»: le «precomprensioni cognitive, le euristiche e i bias» – che l’attuale momento storico acuisce – causano, da un lato, una percezione distorta della realtà e, dall’altro, influenzano negativamente il processo deliberativo del giudicante; a ciò si aggiunge l’utilizzo massiccio, anche nel settore giudiziario, dei dispositivi di intelligenza artificiale («quanto più si accentua il discredito verso la magistratura», ha sottolineato il professor Forti, «tanto più si preferiscono sistemi automatici di decisione»): ciò richiede lo sviluppo di skills diverse e ulteriori e modificano notevolmente il bagaglio di abilità e conoscenze richieste al magistrato.
In particolare – ha osservato la professoressa Patrizia Pederzoli, docente di Scienza politica presso l’Università di Bologna – è proprio «l’idea di un “magistrato a tutto tondo”, dotato di una cultura non solo tecnico-giuridica» che sembra affiorare dalla lettura del volume presentato e che potrebbe fungere da “antidoto” alle difficoltà dell’apparato giudiziario (l’analisi condotta dal World Justice Project, organizzazione indipendente che elabora ogni anno un indicatore volto a «valutare la qualità dello stato di diritto», ha, del resto, collocato l’Italia al ventisettesimo posto, su 137 Paesi, pur ponendo in rilievo – nonostante il positivo posizionamento nella graduatoria – le mancanze che caratterizzano il contesto all’interno del quale il magistrato opera).
Ma quali sono i modi e le possibilità per un più efficace miglioramento del «sistema giustizia»? «Le riforme sono pensate con l’occhiale del giurista, dell’avvocato o del magistrato?», ha domandato il professor Aldo Travi, docente di diritto amministrativo presso l’Università Cattolica: «ogni intervento riformatore dovrebbe essere teso a inibire qualsiasi supplenza giudiziaria rispetto al ruolo del legislatore. Il rischio da evitare è che il giudice superi la legge per farsi portatore di istanze sociali». Esiste, perciò, anzitutto, una «dimensione individuale, che inerisce alla persona del magistrato: un magistrato che dovrebbe credere nel limite e nel dubbio».
«Una efficace riforma della giustizia, tuttavia», ha osservato il professor Antonio Albanese, docente di diritto privato presso l’Università Cattolica, «non può ridursi alla riforma del processo»: essa dovrebbe anzi avere una portata più estesa, «attingendo altresì a modelli comparatistici migliori del nostro», per sradicare quella «funzione creativa» dell’attività del giudicare che deriva in larga parte da una mancanza di razionalità del sistema, da un certa sciatteria nella redazione delle norme, dalla poca chiarezza della lettera della legge (elementi, questi, che si ripercuotono, come ha rilevato il professor Renato Balduzzi, docente di Diritto costituzionale presso l’Università Cattolica, sulle motivazioni, spesso mal-costruite, delle sentenze: «la motivazione», è invece ‘sostanza del diritto’: occorre meglio motivare per meglio giudicare»).
Proprio a tali ultimi profili si lega, peraltro, il tema della «parola giusta» – caro agli studi da sempre condotti dall’Alta Scuola “Federico Stella” sulla Giustizia Penale e in più occasioni venuto in evidenza durante l’incontro – che si contrappone a quella «peste del linguaggio che dilaga dal pubblico al privato» per creare invece una cultura dell’«esattezza» espressiva, della «scelta lessicale motivata, della sicurezza terminologica, intesa a catturare l’unicità dell’esperienza». Quello della comunicazione istituzionale, delle tecniche di scrittura e redazione delle sentenze – ma anche della rappresentazione mediatica dell’attività giudiziaria – sono aspetti che – si è osservato durante il convegno – meritano di essere meditati, approfonditi ed elaborati. A cosa si pensa quando si ascolta la parola “giustizia”? Di quale “giustizia” parliamo? La giustizia vissuta, la giustizia “narrata”? La giustizia “costruita” e “raccontata” dalle penne dei giornalisti? Come il magistrato “vive” e “auto-osserva” la propria attività? Esiste un rischio di autoreferenzialità, di «chiusura sistemica» della classe giudicante, che appare e si auto-costruisce come separata dalla società nella quale opera?
Come è stato sottolineato dal professor Matteo Caputo, docente di Diritto penale presso l’Università Cattolica, il problema centrale – dal quale derivano tutti gli altri – è legato a un gap, a una mancanza, a una certa inadeguatezza nella formazione dei magistrati. A ciò sono chiamate a porre rimedio, primariamente, le facoltà di Giurisprudenza, che dovrebbero – ha rilevato il professor Caputo – far acquisire agli studenti una familiarità sempre crescente con l’attività di scrittura (di elaborati, temi, pareri), che contribuisca a costruire e rafforzare quella cultura della «parola giusta» di cui si è detto. Non solo: anche le modalità di selezione dei magistrati richiederebbero di essere articolate in modo da valorizzare, accanto alle abilità tecniche, le Non Technical Skills, prevedendo altresì l’introduzione di test psico-attitudinali che consentano l’accesso alla magistratura solo a chi presenti un profilo psicologico adeguato. Alla «solitudine», che assai spesso caratterizza l’attività del giudice, si può far fronte solo con una formazione che insegni, anzitutto, a «restare nel cuore della realtà», a «leggere il mondo che ci circonda», affinché quella «giustizia amministrata “nel nome del popolo”» schivi «lo spettro del populismo penale»: l’esigenza, come ha affermato in chiusura la dottoressa Francesca Fiecconi, co-autrice del libro e consigliere presso la Corte di Cassazione, è, in sostanza, quella di promuove l’immagine di un «giurista vicino alla voce dei cittadini, capace di creare un sistema in grado di “resistere al tempo”».
Diversamente, il «sistema-giustizia» scivolerà verso l’immagine, suggestivamente richiamata dal presidente Canzio in chiusura dell’incontro: l’immagine di un motoscafo, attraccato al lido di Venezia, carico di fascicoli vecchi e confusamente accalcati, che attendono di essere traghettati nelle opportune sedi; rappresentazione con la quale, talvolta, la realtà del sistema giudiziario rischia pericolosamente di identificarsi.
Tanti gli stimoli emersi dalla presentazione di questo volume che sicuramente hanno fatto prendere in considerazione l’ingresso in magistratura ai numerosi studenti intervenuti. Il preside Solimano ha ringraziato il presidente Canzio, già docente della Facoltà, per aver incoraggiato negli anni vari studenti ad accedere a questa professione, maturando quella passione civile utile a non svolgere un mestiere qualsiasi ma a tendere con la giusta predisposizione e preparazione a diventare “servitori dello Stato” nei ruoli di questa importante funzione.