Sono grato al Magnifico Rettore, Prof. Franco Anelli, e all'Assistente ecclesiastico Generale, Mons. Claudio Giuliodori, per avermi dato questa opportunità di partecipare alle celebrazioni del centenario di fondazione dell'Università Cattolica del Sacro Cuore. Come sapete, essa è stata anche la mia Università. In essa, negli anni '60 e '70, ho avuto l’onore di studiare e insegnare nella Facoltà di Lettere e filosofia e nella direzione del—Dipartimento di Scienze religiose. In quest’ultima capacità, mi occupavo anche dell’insegnamento della teologia al Policlinico Gemelli. Porto me nel cuore e all'altare le tante persone che ho conosciuto in quegli anni, primo fra tutti il mio venerato maestro e amico Giuseppe Lazzati.
Nel 1979, nel pieno del mio coinvolgimento universitario, sentii la chiamata a lasciare la cattedra per il pulpito, cioè a dedicare completamente la mia vita all’annuncio del regno di Dio. Partii, ina non scossi la polvere dai sandali. Al contrario! Ho sempre ringraziato e benedetto Dio per tutto quello che mi ha dato prima con lo studio della teologia a Friburgo in Svizzera e poi con lo studio di Lettere e filosofia alla Cattolica.
Tutto ciò mi ha dato come una chiave per aprire al popolo di Dio gli immensi tesori di dottrina e di grazia presenti nella Scrittura e nella tradizione della Chiesa e nella cultura dell’umanità. Parlando a dei giovani studenti e seminaristi raccomando spesso: “Per carità, non seguite il mio esempio!” Non lasciate gli studi, se non siete sicuri di aver ricevuto una diversa chiamata. Utilizzate al meglio le possibilità che gli studi universitari vi offrono. Sono un privilegio di cui si è responsabili nei confronti di sé stessi e della società.
Al momento della chiamata, nel 1979, non sapevo dove dovevo cominciare a predicare. Lo seppi pochi mesi dopo, quando ricevetti da Giovanni Paolo II la nomina a Predicatore della Casa Pontificia. Era dunque lì, in Vaticano, che dovevo cominciare a predicare il regno di Dio! Per 41 anni sono stato testimone dell'’incredibile umiltà degli ultimi tre papi che ogni venerdì, in Avvento e in Quaresima, mettono tutto da parte per andare ad ascoltare la predica di un semplice sacerdote della Chiesa Cattolica. (Almeno tale fino all'anno scorso!)
E ora consentitemi di assolvere il dovere principale che devo assolvere in questo momento e cioè commentare la parola di Dio che abbiamo ascoltato. Essa è quella della festa del Sacro Cuore. Il Vangelo riporta un episodio tanto breve e povero di parole, quanto immenso per il significato che ha avuto nella vita spirituale e sacramentale della Chiesa:
“Venuti però da Gesù, vedendo che era già morto, non gli spezzarono le gambe, ma uno dei soldati con una lancia gli colpi il fianco, e subito ne uscì sangue e acqua” (Gv 19, 33-34).
All’inizio del suo ministero, a chi gli domandava con quale autorità egli cacciasse i mercanti dal tempio, Gesù rispose: “Distruggete questo tempio, in tre giorni lo farò risorgere”. “Egli parlava del templio del suo corpo” (Gv 2, l9. 21), aveva commentato Giovanni in quella occasione. Ed ecco che ora lo stesso evangelista ci attesta che dal bianco di questo tempio “distrutto” sgorgano acqua e sangue.
Ma penetriamo dentro la sorgente di questo “fiume di acqua viva” (Gv 7, 38). Nell'Apocalisse lo stesso evangelista scrive: “Poi vidi, ln mezzo al trono, circondato dai quattro esseri viventi e dagli anziani, un Agnello, in piedi, come immolato” (Ap 5, 6). Immolato, ma in piedi, cioè trafitto, ma risorto e vivo.
Esiste ormai, dentro la Trinità e dentro il mondo, un cuore umano che pulsa, non solo metaforicamente, ma realmente. Se Cristo, infatti, è risorto da morte, anche il suo cuore è risorto da morte; esso vive, come tutto il resto del suo corpo, in una dimensione diversa da prima, vera e reale, anche se mistica. Ciò che veneriamo nel culto del “Sacro Cuore” non è solo il cuore di carne che batteva nel corpo del Gesù terreno e che fu trafitto sulla croce. È il cuore vivo e palpitante del Risorto. Non ricordiamo soltanto un evento passato, ma una realtà in atto. Questa certezza dà alla festa del Sacro Cuore un contenuto non soltanto devozionale, ma anche cherigmatico.
Lo scrittore Joseph Conrad ha creato un'espressione per descrivere il colmo della malvagità che può ammassarsi in seno all’umanità: “Cuore di tenebra”. È il titolo di un suo famoso romanzo. Noi Sappiamo, però, che grazie al sacrificio di Cristo, più profondo del cuore di tenebra, palpita ormai nel mondo un cuore di luce. Cristo, infatti, salendo al cielo, non ha abbandonato la terra, come, incarnandosi, non aveva abbandonato la Trinità.
“Ora si compie il disegno del Padre - dice un’antifona della Liturgia delle ore -, fare di Cristo il cuore del mondo”. L’Università Cattolica italiana ha preso il nome di “Università del S. Cuore” per fattori in parte storici e contingenti e cioè per il ruolo che il culto del S. Cuore rivestiva al momento della sua fondazione. Il nome tuttavia, senza perdere nulla del suo significato tradizionale, si arricchisce sempre di nuovi significati, come tutte le cose della fede. Dalla “devozione al Sacro Cuore”, la Chiesa è passata al programma di “fare di Cristo il cuore del mondo”. L’Università Cattolica si inserisce in questo progetto nella misura in cui, con i mezzi a lei propri, si sforza di fare di Cristo “il cuore della cultura”.
La semplice presenza della parola “cuore” nel titolo di questa nostra università contiene un messaggio quanto mai attuale. Nell’uomo Gesù di Nazareth , come in ogni uomo, il cuore rappresenta la sede dei sentimenti e degli affetti, come la mente lo è delle idee e dei ragionamenti. La nostra civiltà, dominata dalla tecnica, ha bisogno di un cuore se vogliamo evitare che, mentre si surriscalda fisicamente, il nostro pianeta ripiombi, spiritualmente, in un’era glaciale.
In questo, a differenza che in molti altri campi, la tecnica ci è di ben poco aiuto. Si sta lavorando da tempo a un tipo di computer che “pensa” e molti sono convinti che vi si arriverà e, anzi, vi si è già in parte arrivati. Ma nessuno finora ha prospettato la possibilità di un computer che “ama”, che si commuove, che viene incontro all’uomo sul piano affettivo, facilitandogli l’amare, come gli facilita il calcolare le distanze tra le stelle, il movimento degli atomi e la memorizzazione dei dati. Ci è diventata familiare l’idea dell’intelligenza artificiale, ma riusciamo noi a concepire l’idea di un amore artìfìciale?
Al potenziamento dell’intelligenza e delle possibilità conoscitive dell’uomo, non va di pari passo, purtroppo, il potenziamento della sua capacità d’amore. Quest’ultima, anzi, sembra che non conti nulla, mentre sappiamo che la felicità o l’infelicità non dipende tanto dal conoscere o non conoscere, quanto dall’amare o non amare, dall’essere amato o non essere amato. Il motivo di ciò è semplice: noi siamo creati “a immagine di Dio”, e Dio, ci ricorda l’evangelista Giovanni “è amore”, Deus caritas est!
Non è difficile capire perché siamo così ansiosi di accrescere le nostre conoscenze e così poco di accrescere la nostra capacità di amare: la conoscenza si traduce automatlcamente in potere, l’amore invece in servizio. Una delle moderne idolatrie è l’idolatria dell”’IQ”, del “quoziente di intelligenza”. Si sono messi a punto numerosi metodi di misurazione. Ma chi si preoccupa di tener conto anche del “quoziente di cuore”? Eppure solo l’amore redime e salva mentre la scienza e la sete dl conoscenza, da sole, possono portare alla dannazione.
È la conclusione del Faust di Goethe ed é anche il grido lanciato prima di morire dal compianto regista Ermanno Olmi. In una scena del suo ultimo film “Cento chiodi”, egli fa inchiodare simbolicamente al pavimento di legno i preziosi volumi di una biblioteca, con il protagonista che grida: “Tutti i libri del mondo non valgono una carezza!”. Sembra la traduzione cinematografica della parola di San Paolo “Se avessi il dono della profezia, se conoscessi tutti i misteri e avessi tutta la conoscenza, se possedessi tanta fede da trasportare le montagne, ma non avessi la carità, non sarei nulla” (Coi 13,2).
Dostoevskij ha scritto la frase spesso ripetuta: “La bellezza salverà il mondo”. La bellezza, però, lo sappiamo bene, può salvare il mondo, ma può anche perderlo. “La bellezza ti ha sedotto”, grida il biblico Daniele a uno dei due vecchioni lussuriosi. Non sarà l’amore della bellezza perciò che salverà il mondo, ma la bellezza dell’amore!
Cari docenti, studenti e personale dell’Università Cattolica di Roma e di Milano, la mia non è una esortazione a trascurare la ricerca e l’impegno scientifico che sono la ragione stessa dell’esistenza di una università; è piuttosto un invito a coltivare insieme con la mente, anche il cuore. “Dare - come dicevo - un cuore alla cultura”! Mettere le idee e la scienza (a partire da quella medica) al servizio delle persone, mai il contrario! Cari medici, non dimenticate mai che dietro la cartella clinica e i risultati di esami, c’è una persona umana e che spesso una vostra carezza, un sorriso, e una parola di speranza può fare più bene di ogni medicina. Non permettete che la tecnica e la strumentazione sostituiscano il contatto umano.
Noi credenti abbiamo in ciò un grande aiuto: la fede e la preghiera. Quando fra poco riceveremo l’Eucaristia dobbiamo credere che il “cuore di luce” viene dentro di noi e palpita misteriosamente dentro di noi che siamo il corpo di Cristo. Con una antifona della festa del Sacro Cuore, diciamogli: “Jesu mitis set humilis corde, fac cor nostrum secundum cor tuum”: Gesù, mite e umile di cuore, rendi il nostro cuore simile al tuo.