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Nel segno del calamaro. Cosa ci insegna il successo globale di Squid Game e del K-drama

14 ottobre 2021

Nel segno del calamaro. Cosa ci insegna il successo globale di Squid Game e del K-drama

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È probabile che in queste settimane vi siate trovati coinvolti in discussioni sulla “serie distopica” del momento e, se non vi è ancora capitato, la curiosità per Squid Game vi spingerà presto ad aprire Netflix per immergervi nel mondo parallelo e carico di angoscia e suspense della serie di cui tutti parlano. Come resistere all’interesse per quello che è stato definito, con una certa enfasi promozionale, il più grande hit globale della piattaforma di streaming, distribuita dalla Corea del Sud nelle case di milioni di spettatori in decine di Paesi del mondo? Secondo la stessa Netflix (via Twitter) Squid Game è stato il miglior lancio nella storia – pur recente – della piattaforma, con una stima di 111 milioni di persone che hanno dato il via allo stream, più di quanto accaduto per titoli di punti come Bridgerton o La Casa di carta.

Anche depurando questi annunci dall’enfasi promozionale che è la strategia primaria di marketing di una piattaforma senza palinsesto, orientata quindi a convogliare l’attenzione su hit in grado di sostenere l’espansione dei sottoscrittori, non c’è dubbio che Squid Game sia un autentico fenomeno: soprattutto perché rappresenta il punto d’arrivo ideale di una strategia ventennale di sviluppo del prodotto culturale marcato con la “K” (K-drama, K-pop), il “made in Korea” alla conquista prima dell’Asia, e poi del mondo intero.

Ma andiamo con ordine. Squid Game (letteralmente “Il gioco del calamaro”) è una serie in nove episodi (ma già si pensa alla seconda stagione), creata dal cinquantenne regista sud-coreano Hwang Dong-hyunk (già autore del film di successo Dogani, del 2011), distribuita a livello mondiale da Netflix il 17 settembre. Racconta la storia di un gruppo di estranei, radunati in un certo senso “volontariamente”, per convivere in un universo concentrazionario e partecipare a una serie di giochi infantili (“quelli che si giocavano un tempo”, potrebbe pensare l’anziano concorrente 001…), nei quali è però messa in palio la propria stessa sopravvivenza… (in cambio, però, di una posta in gioco considerevole, oltre 45 miliardi di won, ovvero 33 milioni di euro). Sempre da fonti Netflix, la serie si è trasformata rapidamente nel primo programma coreano a conquistare la vetta dei consumi negli stessi Stati Uniti, capovolgendo la consueta logica dell’“imperialismo culturale dei Hollywood”, e facendo il paio con l’Oscar guadagnato nel 2020 da Parasite.

E in effetti, col film di Bong Joon-ho Squid Game condivide alcuni tratti che affondano nella cultura coreana contemporanea: in primis lo sguardo disincantato e crudele sulla lotta di classe che divide personaggi underdog di un sotto-proletariato costretto a qualunque compromesso per sopravvivere e un ceto di ricchissimi e spietati membri di una élite ormai priva di limiti morali. Ma ai molti temi che affondano nella cultura coreana (ricollegabili al tradizionale confucianesimo) Squid Game aggiunge un portentoso packaging che si fonda su una costruzione formale e visiva controllatissima (fra simmetrie e citazioni colte, come gli ambienti ispirati alle opere di Escher), su oggetti iconici (le maschere, le tute e le scarpe bianche, la cui domanda è balzata improvvisamente sul mercato), su una struttura narrativa meticolosamente costruita sui twist narrativi e sul suspense, fra Lost e La casa de papel. E, naturalmente, sul filone ricchissimo della serialità distopica, da Black Mirror in poi.

Ma l’interesse per Squid Game va ben oltre il prodotto in sé, e ci porta al fenomeno in sé. In meno di vent’anni, infatti, grazie a un oculato mix di protezionismo, investimenti e liberalizzazione del settore mediale (con una portentosa crescita della pay tv), la Corea ha costruito in laboratorio una cultura pop e mediale che, attraverso la musica, il cinema, l’animazione e la serialità, ha conquistato prima la Cina, poi il rivale Giappone, il resto dell’Asia, l’America Latina e i paesi arabi. E, grazie alla circolazione sotterranea su Internet e poi a Netflix, anche l’ultimo baluardo è caduto: il K-drama è diventato fenomeno mainstream in Occidente. Le ricadute vanno ben oltre i media: l’interesse per il brand Corea – ci raccontano i dati – è cresciuto esponenzialmente. Con esso il “cine-tele-turismo”, che cresce laddove i prodotti coreani sono più popolari. All’apparenza, quando ne parliamo davanti a un caffè, stiamo discutendo di una serie televisiva. Ma in realtà stiamo parlando di un efficace soft power ormai multipolare, e non più appannaggio della sola Hollywood.

Un articolo di

Massimo Scaglioni

Massimo Scaglioni

Direttore Ce.R.T.A

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