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Franco Anelli: «Creatività, pensiero critico. Per l’università il futuro è ora»

02 agosto 2021

Franco Anelli: «Creatività, pensiero critico. Per l’università il futuro è ora»

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«Essere creativi e cioè originali, questo ci chiedono i ragazzi, questo è il nostro obiettivo: preparare studenti capaci di elaborare un pensiero critico e dunque libero. Colti, quindi immuni da stereotipi». Come farlo, con pandemia e rivoluzione digitale che premono, un centenario da celebrare e in parte già festeggiato, difficoltà e incognite come lezioni a distanza e green pass, lo spiega Franco Anelli, rettore dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, cinque sedi, 40 mila iscritti, dodici facoltà. «Alla fine le circostanze hanno fatto in modo che la ricorrenza diventasse un’urgenza: progettare un nuovo futuro accademico».

 La solida grazia dei chiostri del Bramante, lo splendore austero del rettorato. Milano, il 7 dicembre 1921 nasceva l’Università Cattolica, da un’idea di padre Agostino Gemelli e un gruppo di intellettuali convinti della necessità di riportare i cattolici nel dibattito culturale del Paese.

Professore, centenario rovinato?
«Ma no. Tanto più che l’anno accademico è stato inaugurato con la presenza — in diretta video — del Presidente Sergio Mattarella che ha aperto le celebrazioni. Comunque la pandemia ci ha dimostrato che il sistema ha una capacità di risposta eccezionale; e che bisogna immaginare i prossimi anni introducendo elementi di diversità rispetto al passato».

Quali?
«Certi strumenti tecnologici — senza farsene condizionare — andranno collocati nella realizzazione dell’attività didattica. Dovremo capire non tanto come usare la tecnologia ma come, di fronte a queste novità, costruire diversamente i percorsi formativi, tema su cui tutti dobbiamo riflettere. Cambierà anche la dimensione fisica degli atenei».

In che modo?
«Se diciamo che l’università è un luogo di confronto e dialogo in cui le persone si incontrano, devono esserci spazi funzionali ad attività che non siano solo lezioni e colloqui. Ma più di tutto bisognerà capire cosa insegnare».

Cosa, e come?
«Serve una nuova interpretazione del reale. Il Novecento è finito adesso, quel modello lascia spazio a una società fondata sul digitale, sulla produzione di nuovi oggetti di scambio, su nuovi processi decisionali e di formazione del consenso, su un nuovo accesso alle cariche politiche. Tante realtà vanno comprese. Competenze nuove vanno costruite».

E quindi alcuni percorsi di studio hanno ancora senso?
«Fermo restando che le università nascono per essere luoghi di insegnamento, non soltanto centri di ricerca, e che gli studenti pagano la retta non perché i professori studino ma perché insegnino loro, gli atenei sono luogo di “elaborazione” del sapere. Sono spazi di creatività e questo significa fare un passo in più rispetto al mantra dell’innovazione. Viviamo in un mondo fluido: modificandosi la realtà si modifica quello che è necessario sapere. Da qui occorre individuare percorsi nuovi, ma senza inseguire la conoscenza di dettaglio, quella di moda in un certo, spesso breve, momento, perché su questo sappiamo che si fanno errori clamorosi. Dobbiamo capire come combinare l’offerta formativa per dare preparazioni più originali e adeguare il contenuto dei corsi. Ecco la missione».

Tenersi aggiornati con i tempi?
«Impegnarsi a formare menti capaci di pensare, di essere a loro volta originali e creative. L’università non serve a licenziare persone con la testa riempita di nozioni ma che fanno fatica a elaborarle, io mi riferisco all’indipendenza di pensiero, alla capacità di critica e originalità che è quello di cui c’è più bisogno. Abbiamo una disperata necessità di conoscenza e di cultura, di affermare il loro valore non solo operativo o professionale, ma sociale e politico».

Perché secondo lei?
«Negli ultimi anni sono stati messi in crisi gli elementi di accreditamento delle competenze. Questo ha fatto saltare tutti i legami sociali, pensiamo all’aprioristica messa in discussione dell’operato dei medici, o dei professori. Ma per riconoscere le competenze altrui la premessa è averne di proprie. Una società che nega le competenze non è capace di affrontare le vere difficoltà. E non c’è niente di peggio che un sistema sociale composto da persone non istruite, perché sono preda di chiunque e di qualunque cosa. Ed è un pericolo reale, rispetto al quale il compito di chi deve educare è sì trasmettere informazioni, nozioni, ma soprattutto gli strumenti per quella costruzione personale del proprio spessore intellettuale che consenta di essere capaci di pensiero profondo e indipendente. Questa creatività nasce dalla capacità di valutare in modo critico l’esistente. Allora se pensiamo a cosa deve fare l’università, ecco, io credo che debba recuperare una capacità ideativa nel formare, avere originalità nel proporre programmi, percorsi, tecniche didattiche, metodi di ricerca. Creatività e senso critico consentono di non essere vittima degli stereotipi, ma di padroneggiare le conoscenze ed essere capaci di farne strumento del proprio pensiero».

Come si inseriscono in queste riflessioni i valori cristiani dell’Università Cattolica?
«Ci sono due aspetti. Uno è l’attenzione tipica dell’approccio cristiano alla persona, e quindi l’idea dell’irripetibilità del singolo, che però è pensato all’interno di una comunità. E questo è un elemento che ai nostri laureati viene riconosciuto: saper lavorare in squadra. Altro tema: la capacità di pensare a una dimensione trascendente è già di per sé una costante sollecitazione ad alzare lo sguardo».


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Un articolo di

Annachiara Sacchi

Annachiara Sacchi

Corriere della Sera

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