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Gemma Calabresi, la crepa e la luce

19 ottobre 2022

Gemma Calabresi, la crepa e la luce

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«Don Sandro si sedette accanto a me, mi prese le mani in silenzio. Non c’era niente da dire. Non so dopo quanto accadde, ma a un certo punto sentii una sensazione di immensa pace». Questo è stato il primo segno che Gemma Calabresi ha ricevuto la mattina del 17 maggio 1972 quando suo marito, il commissario Luigi Calabresi, è stato ucciso. 

Sono trascorsi cinquant’anni, tanta vita, tanti dolori e tante opportunità che hanno portato questa donna a essere quella che oggi è e che si svela tra parole dirette e chiare accompagnate da un sorriso aperto ed empatico.

L’aula Manzoni di largo Gemelli l’ha accolta e sostenuta con applausi martedì 18 ottobre mentre raccontava la sua vita racchiusa nelle centotrenta pagine de La crepa e la luce. Sulla strada del perdono. La mia storia, il suo libro pubblicato da Mondadori.

L’ha introdotta Camillo Regalia, direttore del Centro di Ateneo Studi e ricerche sulla famiglia, che l’ha definita una “donna meravigliosa”, nel senso aristotelico del termine, ovvero che suscita quella meraviglia che è alla base del pensiero. Per lui che ha studiato per anni il perdono dal punto di vista scientifico questo libro è stata una scoperta che ha lasciato aperte anche diverse domande, ad esempio come sia stato possibile conquistare la serenità dopo tanto dolore.

I segni. «Nella vita tutti abbiamo dei segni, bisogna saperli vedere, leggere e accettare. Oggi io li cerco perché so che ci sono». La signora Calabresi ha cominciato a parlare della sua evoluzione sulla strada della comprensione e del perdono. A cominciare dalle ultime parole scambiate con suo marito quella tragica mattina, quando, dopo essere uscito per andare a lavorare, è tornato indietro, ha cambiato la cravatta rosa per indossarne una bianca e dire alla moglie: “Questa è il simbolo della mia purezza”. Questo ricordo l’ha sostenuta nel tempo della calunnia, della macchina del fango. 

Il segno della pace provata accanto al parroco, poi, è stata «una sensazione talmente assurda che ha detto: "Recitiamo una preghiera per la famiglia dell’assassino perchè avrà un dolore molto più grande del mio". Non era farina del mio sacco, era qualcuno che mi apriva la strada e testimoniava per me. Quella mattina io ho ricevuto il dono della fede. La fede non toglie il dolore ma lo riempie di significato, dà forza, non ti fa sentire solo e ti dà la speranza».

Così comincia la trasformazione spirituale della giovane di 25 anni, vedova con due figli di 2 e 1 anno e uno in grembo. Ed è così che da tradizione familiare, la fede è diventata una scelta. Questo non le ha risparmiato anni di dolore, rabbia, pianto, sconforto, e perfino fantasie di vendetta, che ogni volta, però, lasciavano il posto alla fede. Si, perché «anche dopo un dolore lacerante si può amare la vita, dopo la calunnia e il tradimento si può ancora credere negli altri e che anche le persone che rappresentavano il male possono essere viste come qualcosa di diverso». 

Qualche tempo dopo è arrivato un altro segno. Un bambino della scuola elementare dove Gemma Calabresi insegnava religione le ha chiesto perché, quando uno muore, se ne parla sempre bene. Perchè bisogna ricordare le cose buone realizzate in vita e saremo giudicati non per gli errori commessi ma per il bene compiuto, è stata la risposta. Quello è stato il momento in cui ha pensato che anche gli assassini del marito non sono solo assassini ma anche tante altre cose, come ad esempio essere padri premurosi e protettivi.

«Magari saranno buoni amici, avranno aiutato gli altri, come io sto camminando anche loro stanno camminando e allora che diritto ho io di inchiodarli a quel gesto, se pur terribile, quel giorno a quell’ora? Così ho ridato loro la dignità di persone, ho fatto il contrario di quello che hanno fatto i terroristi che sceglievano un obiettivo e lo disumanizzavano facendolo diventare una cosa».

Gemma Calabresi ha esortato gli studenti in aula a mantenere sempre un pensiero critico, libero, individuale anche quando sono in gruppo, a cercare di sapere, di conoscere prima di condannare. Perché oggi, come allora, chi grida più forte è ascoltato, e uno slogan urlato spesso rischia di diventare una verità. La storia viene cambiata dalle persone, come ha sottolineato Simona Beretta, direttrice del Centro di Ateneo per la dottrina sociale della Chiesa che ha co-organizzato l’incontro. E «sulla parola “fratellanza” dovremo riflettere molto nei prossimi anni perché non è solo una parola ma un processo, un cammino, una strada, un ponte verso una pace sociale possibile».
 

 

Riuscire a guardare un assassino come una persona è, appunto, un processo che richiede tempo, risorse, umanità. E Gemma Calabresi ha cominciato a farlo riprendendo in mano, molti anni dopo, il necrologio sul Corriere della sera scelto da sua madre: “Padre perdona loro perché non sanno quello che fanno”. Il segreto è qui, rispondere alla violenza con l’amore. Non è umano? No, non lo è. Infatti, «Gesù ha chiesto al Padre di perdonare i suoi carnefici perché era sì Figlio di Dio, ma lì era un uomo e come uomo sarebbe stato impossibile perdonare nel momento dell’abbandono, della calunnia, della solitudine, del tradimento, del dolore fisico. Quindi ci ha indicato di chiedere al Padre di perdonare lasciando a noi il tempo del cammino. Dio aveva già perdonato per me e io avevo il tempo del mio cammino e non ero sola in questo». 

Tra i molti altri segni che la signora Calabresi ha raccontato ce n’è uno in particolare che ha scosso il pubblico, come il lettore del libro. Chiamata per una testimonianza nel carcere di Padova, ha incontrato tre detenuti che hanno chiesto e ricevuto i sacramenti. Avevano ucciso, uno anche più volte. Come è stato possibile per loro abbracciare la fede? «Ognuno di loro in un momento di totale disperazione e sconforto per quello che aveva fatto, ha sentito un’incredibile pace interiore, esattamente la stessa che io sentito quella mattina sul divano. Mi ero crogiolata con il pensiero che Dio era venuto da me perchè ero la vittima e invece Dio va da tutti, è per tutti, qualunque cosa commettiamo, dobbiamo solo sentirlo e lasciarci invadere».

E chi non ha fede? Può arrivare ad amare e perdonare? Sì, secondo Gemma Calabresi si può con il cuore e l’umanità. «Si può imparare a guardare le persone in tutta la loro vita, la loro storia, la loro sofferenza. Allora si diventa meno giudicanti e si può imparare a perdonare andando oltre l’offesa o lo sgarbo perché le persone sono molto altro rispetto al male che hanno commesso».
Certi incontri, come quello con i detenuti a Padova, cambiano per sempre il cammino: «Tra il mio perdono e il loro non c’era nessuna differenza, perché il perdono è come un ponte, c’è chi lo percorre partendo da una parte e chi da un’altra, ma a metà strada ci si incontra, e ci si riconosce».

Un articolo di

Emanuela Gazzotti

Emanuela Gazzotti

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