«Don Sandro si sedette accanto a me, mi prese le mani in silenzio. Non c’era niente da dire. Non so dopo quanto accadde, ma a un certo punto sentii una sensazione di immensa pace». Questo è stato il primo segno che Gemma Calabresi ha ricevuto la mattina del 17 maggio 1972 quando suo marito, il commissario Luigi Calabresi, è stato ucciso.
Sono trascorsi cinquant’anni, tanta vita, tanti dolori e tante opportunità che hanno portato questa donna a essere quella che oggi è e che si svela tra parole dirette e chiare accompagnate da un sorriso aperto ed empatico.
L’aula Manzoni di largo Gemelli l’ha accolta e sostenuta con applausi martedì 18 ottobre mentre raccontava la sua vita racchiusa nelle centotrenta pagine de La crepa e la luce. Sulla strada del perdono. La mia storia, il suo libro pubblicato da Mondadori.
L’ha introdotta Camillo Regalia, direttore del Centro di Ateneo Studi e ricerche sulla famiglia, che l’ha definita una “donna meravigliosa”, nel senso aristotelico del termine, ovvero che suscita quella meraviglia che è alla base del pensiero. Per lui che ha studiato per anni il perdono dal punto di vista scientifico questo libro è stata una scoperta che ha lasciato aperte anche diverse domande, ad esempio come sia stato possibile conquistare la serenità dopo tanto dolore.
I segni. «Nella vita tutti abbiamo dei segni, bisogna saperli vedere, leggere e accettare. Oggi io li cerco perché so che ci sono». La signora Calabresi ha cominciato a parlare della sua evoluzione sulla strada della comprensione e del perdono. A cominciare dalle ultime parole scambiate con suo marito quella tragica mattina, quando, dopo essere uscito per andare a lavorare, è tornato indietro, ha cambiato la cravatta rosa per indossarne una bianca e dire alla moglie: “Questa è il simbolo della mia purezza”. Questo ricordo l’ha sostenuta nel tempo della calunnia, della macchina del fango.
Il segno della pace provata accanto al parroco, poi, è stata «una sensazione talmente assurda che ha detto: "Recitiamo una preghiera per la famiglia dell’assassino perchè avrà un dolore molto più grande del mio". Non era farina del mio sacco, era qualcuno che mi apriva la strada e testimoniava per me. Quella mattina io ho ricevuto il dono della fede. La fede non toglie il dolore ma lo riempie di significato, dà forza, non ti fa sentire solo e ti dà la speranza».
Così comincia la trasformazione spirituale della giovane di 25 anni, vedova con due figli di 2 e 1 anno e uno in grembo. Ed è così che da tradizione familiare, la fede è diventata una scelta. Questo non le ha risparmiato anni di dolore, rabbia, pianto, sconforto, e perfino fantasie di vendetta, che ogni volta, però, lasciavano il posto alla fede. Si, perché «anche dopo un dolore lacerante si può amare la vita, dopo la calunnia e il tradimento si può ancora credere negli altri e che anche le persone che rappresentavano il male possono essere viste come qualcosa di diverso».
Qualche tempo dopo è arrivato un altro segno. Un bambino della scuola elementare dove Gemma Calabresi insegnava religione le ha chiesto perché, quando uno muore, se ne parla sempre bene. Perchè bisogna ricordare le cose buone realizzate in vita e saremo giudicati non per gli errori commessi ma per il bene compiuto, è stata la risposta. Quello è stato il momento in cui ha pensato che anche gli assassini del marito non sono solo assassini ma anche tante altre cose, come ad esempio essere padri premurosi e protettivi.
«Magari saranno buoni amici, avranno aiutato gli altri, come io sto camminando anche loro stanno camminando e allora che diritto ho io di inchiodarli a quel gesto, se pur terribile, quel giorno a quell’ora? Così ho ridato loro la dignità di persone, ho fatto il contrario di quello che hanno fatto i terroristi che sceglievano un obiettivo e lo disumanizzavano facendolo diventare una cosa».
Gemma Calabresi ha esortato gli studenti in aula a mantenere sempre un pensiero critico, libero, individuale anche quando sono in gruppo, a cercare di sapere, di conoscere prima di condannare. Perché oggi, come allora, chi grida più forte è ascoltato, e uno slogan urlato spesso rischia di diventare una verità. La storia viene cambiata dalle persone, come ha sottolineato Simona Beretta, direttrice del Centro di Ateneo per la dottrina sociale della Chiesa che ha co-organizzato l’incontro. E «sulla parola “fratellanza” dovremo riflettere molto nei prossimi anni perché non è solo una parola ma un processo, un cammino, una strada, un ponte verso una pace sociale possibile».