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Il cardinal Martini e il dialogo con gli altri

31 agosto 2022

Il cardinal Martini e il dialogo con gli altri

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In occasione del decimo anniversario della scomparsa del cardinal Carlo Maria Martini, avvenuta il 31 agosto 2012, pubblichiamo in anteprima uno stralcio del capitolo "Il dialogo con gli altri: immigrazione e Islam" a cura del professor Giorgio Del Zanna, docente di Storia contemporanea dell'Università Cattolica. Il testo è tratto dal libro "Carlo Maria Martini, il vescovo e la città" edito da Vita e Pensiero e curato da Agostino Giovagnoli e Danilo Bessi. Il volume raccoglie gli atti del convegno dedicato all'arcivescovo di Milano dal 1980 al 2002 dal nostro Ateneo lo scorso 9 maggio.



Immigrazione “segno dei tempi”

 

Sul finire degli anni Ottanta, Martini s’interrogò molto seriamente su quella che definisce l’«istanza multirazziale», la prospettiva cioè di un cambiamento profondo della società europea per effetto delle migrazioni, ritendendola «una delle sfide più rilevanti nelle grandi città nei [successivi] venti o trent’anni». Avvertiva l’urgenza di aiutare la Chiesa a maturare una posizione su queste tematiche, offrendo un contributo che potesse avere anche un valore civile. In un articolato intervento intitolato Chiesa e società multirazziale, pubblicato nel marzo 1989, Martini sviluppa il suo ragionamento lungo due direttrici tra loro connesse: da una parte, una puntuale analisi della figura dello «straniero nella Sacra Scrittura» in cui sottolinea un «coerente progresso» dall’Antico al Nuovo Testamento nella direzione di una sempre più incondizionata accoglienza verso lo straniero, arrivando a cogliere nella «questione degli stranieri […] in Italia e in Europa, oltre al valore di attenzione ad una situazione difficile, [il] rilievo come un segno dei tempi». Dall’altra, l’impressione che l’Occidente fosse «profondamente impreparato anche dal punto di vista culturale» a fronteggiare un fenomeno che interpellava la coscienza europea a partire da due principali sfide: la spinta dei popoli del Sud del mondo e il confronto con l’Islam. Tutto ciò – secondo Martini – sollecitava a fare un «salto di mentalità, di cuore, di coraggio».

Per l’Arcivescovo la novità dell’immigrazione degli “extracomunitari” – come si cominciò a chiamarli in quegli anni – non era solo un problema sociale che proprio allora stava esplodendo con le sue criticità, ma rappresentava un’occasione per la Chiesa per assumere un nuovo atteggiamento e intraprendere strade inedite. In più momenti Martini tornerà a sottolineare il carattere “provvidenziale” dell’immigrazione che sollecitava la comunità cristiana a un cambiamento, chiedendosi se non ci si dovesse porre «il problema di un nuovo passaggio ai barbari: una nuova riconversione cioè della Chiesa alle nuove realtà». In una fase di “tramonto” dell’egemonia europea, per l’arcivescovo occorreva ripensare il «problema della missione, della coscienza dell’Europa», andando oltre la pur doverosa presa di distanza dal colonialismo, per scegliere «di interessarsi seriamente, coraggiosamente, prioritariamente, dei […] fratelli più poveri, vicini e lontani». L’orizzonte in cui Martini collocava questa riflessione era l’Europa, non solo in quanto presidente del Consiglio delle Conferenze Episcopali Europee (CCEE), ma soprattutto perché avvertiva come sotto la spinta dei grandi processi contemporanei – tra cui le migrazioni internazionali – le Chiese e le società europee dovessero ripensarsi, uscendo da un certo «provincialismo settoriale legato soltanto all’attenzione per alcuni fenomeni come l’assistenza immediata» per prendere maggior coscienza delle sfide che la crescente interdipendenza globale stava creando. Rileva, per questo, con disappunto la perdurante insistenza nel contesto europeo sul «rapporto fede-politica» – espressione dell’attaccamento «a schemi molto ristretti» – a fronte di un minore interesse nei confronti dell’ecumenismo e del dialogo con le altre religioni, prospettive da lui ritenute cruciali per affrontare i nodi del futuro. In tal senso, l’Arcivescovo coltivò importanti aspettative sulla prima Assemblea Ecumenica Europea che si tenne a Basilea dal 15 al 21 maggio 1989. In un continente ancora diviso dalla guerra fredda, per la prima volta rappresentanti delle Chiese dell’Est e dell’Ovest si sarebbero ritrovati per riflettere sul futuro del continente e sul contributo dei cristiani europei nella costruzione della “pace nella giustizia”. Per Martini il nuovo pluralismo culturale e religioso delle città sarebbe stato tra i temi al centro dell’incontro ecumenico. Tale questione suscitava nell’Arcivescovo molti interrogativi che lo spingevano a una riflessione “sofferta” a causa dei problemi sollevati non solo nella vita degli stranieri ma anche tra gli “ambrosiani”. Intervenendo al convegno "Immigrazione, razzismo e futuro", nel marzo del 1989, Martini si chiede: «C’è una via per un’autentica società multirazziale in Europa?». Con preoccupazione coglieva i segnali di reazioni emotive di chiusura e rifiuto che sfociavano in espressioni di vero e proprio razzismo. Tale situazione interrogava non solo come cittadini ma anche come cristiani, a partire dalla «radice profondamente antievangelica» del razzismo.

Secondo Martini, per rispondere a tali atteggiamenti la Chiesa era chiamata a prendere posizione su alcuni temi fondamentali che si radicavano nella Scrittura: la dignità di ogni uomo, la solidarietà tra i popoli, la necessità di una reale integrazione degli stranieri nelle società, la tutela dell’unità delle famiglie degli immigrati, l’accoglienza di tutti i rifugiati superando la cosiddetta “riserva geografica”, la corresponsabilità della Chiesa verso tutti gli stranieri, non limitandosi ai soli cattolici. Scevro da qualsiasi irenismo e deciso ad un profondo discernimento della realtà, l’Arcivescovo non evitava di evidenziare, però, anche una serie di problemi concreti da non eludere: dall’impoverimento dei paesi dovuto all’emigrazione dei giovani più validi, alla mancanza di efficaci politiche di integrazione, come la regolamentazione dei flussi e l’adozione di «un nucleo minimo di valori» universalmente riconosciuti per permettere una più facile «integrabilità». Le radici cristiane dell’Europa e i principi costituzionali rappresentano per l’arcivescovo le risorse principali cui attingere per fronteggiare i rigurgiti razzisti e favorire una convivenza positiva nelle società plurali. L’Arcivescovo – nei suoi appunti preparatori – sottolinea la mancanza di un chiaro «concetto di integrazione che vada al di là di quello di accoglienza e coabitazione». Quella offerta da Martini risulta un’analisi seria a tutto campo, tesa a trovare la via migliore per costruire in Europa «una società multirazziale, veramente armonica e integrata», a partire dalla convinzione che servissero «spirito profetico», cioè la capacità di cogliere l’integrazione tra persone di culture e religioni diverse come «segno e inizio della presenza di Dio tra gli uomini», consapevolezza della «limitatezza e parzialità» delle risposte a problemi di portata globale, strumenti efficaci per governare un fenomeno complesso da non lasciare «a sé stesso così da assumere una forma anarchica e incontrollata». Infine, l’Arcivescovo conclude:

Gli stranieri che invadono le nostre città sono un prezioso segno dei tempi, che ci sveglia e ci interroga. Essi non sono una presenza fastidiosa, inopportuna e ancor meno sono la causa di una decadenza che prepara un futuro minaccioso; non sono, insomma, una maledizione, ma rappresentano una chance anche per il rinnovamento della nostra vita. Sta a noi scegliere se questa invasione sarà pacifica o conflittuale, se la nostra sprovvedutezza o intolleranza scateneranno un’intolleranza religiosa o politica ancora più terribile. Sta a noi, insomma, […] preparare, nella generosità e nell’accoglienza, una via di condivisione con chi è povero e diverso verso un futuro comune.

Convivenza e integrazione tra persone diverse si ponevano al centro della riflessione martiniana proprio mentre la situazione degli immigrati stranieri a Milano raggiungeva livelli di disagio e di precarietà molto forti. Per Martini – come emerge da alcune note di questo periodo – una reale integrazione necessitava di un mutamento culturale che superasse il paradigma “identitario” dominante nelle singole società nazionali, possibile solo adottando la prospettiva europea e fondando le società su una logica solidaristica aperta al pluralismo culturale e religioso:

È necessario un passaggio culturale che permetta di trasformare l’accoglienza in integrazione reale. Ma perché questo avvenga è pure necessario che ci si ponga nella prospettiva di una società meno monolitica, più articolata e aperta e caratterizzata dalla compresenza equilibrata e arricchente di diverse culture, razze e religioni. In proposito, a Basilea si sottolineava che occorre ricercare soluzioni che portino ad una pluralità di culture, di tradizioni, di razze in Europa. È quindi necessario ripensare la stessa categoria di “nazionale”, nel contesto di una interdipendenza che sappia diventare scelta di solidarietà, secondo le indicazioni della Sollecitudo rei socialis, nella consapevolezza che la stessa Costituzione Italiana si fonda su questo principio solidaristico. Ci si deve quindi aprire ad una prospettiva europea […]. Ciò comporta la concezione delle società, non più come compagine omogenea e compatta, bensì come struttura globale, articolata, multiculturale.


La sfida dell’intolleranza


Milano era impreparata a gestire il fenomeno migratorio, sebbene il Comune avesse creato nel 1986 un apposito Ufficio Nomadi e Stranieri, dimostrando di cogliere le trasformazioni in atto. Il problema principale era quello abitativo: a differenza delle colf il più delle volte sistemate nelle case dei datori di lavoro, mancavano completamente alloggi per le migliaia di nuovi lavoratori stranieri, in maggioranza uomini soli, spesso privi di documenti e con occupazioni precarie, costretti a vivere in sistemazioni di fortuna in cascine diroccate e nei numerosi edifici industriali in disuso, senza servizi e in condizioni igienico-sanitarie assai critiche. Il 1989 fu un anno di svolta. In agosto, l’uccisione a Villa Literno di un rifugiato sudafricano, Jerry Masslo, accese in Italia il dibattito sul razzismo e sulla necessità di una legge organica sull’immigrazione. A Milano, alcuni episodi richiamarono l’attenzione sulla drammaticità della situazione e sulla necessità di organizzare l’accoglienza: durante l’inverno, la morte per assideramento di alcuni stranieri costretti a vivere in strada e una serie di episodi di intolleranza xenofoba avevano spinto Martini a prendere posizione. Quell’anno l’arcivescovo decise il Giovedì Santo di lavare i piedi ad un gruppo di immigrati stranieri, spiegando che «la Chiesa [doveva] compiere una scelta profetica impegnandosi nella costruzione di una società multirazziale in Europa». Al giornale «la Repubblica» dichiara:

Nelle nostre città si scarica sullo straniero l’insoddisfazione per i problemi che non sappiamo risolvere. Così si mostra il nostro antico provincialismo, che il benessere non ha cancellato, anzi mette in evidenza. Ma sta a noi scegliere se l’invasione di questi nuovi barbari sarà pacifica o conflittuale, se il patrimonio della nostra tradizione sarà oggetto di rapina oppure stimolo a preparare una nuova via di condivisione.

Il 6 dicembre, il tradizionale discorso alla città nella festa di Sant’Ambrogio cadde in una fase storica del tutto particolare: non solo l’Assemblea Ecumenica di Basilea, ma anche l’inaspettata caduta del muro di Berlino, aprivano uno scenario teso al superamento delle frontiere e all’abbattimento dei muri che sollecitava a interrogarsi sulla «capacità a Milano di essere luogo di accoglienza e segno di unità in questa Europa della fine del secondo millennio». Per Martini il tema dell’accoglienza si inseriva nel quadro dell’«impegno morale globale» emerso a Basilea, riguardante «l’integrazione tra nord e sud, l’accoglienza e il riconoscimento dei diritti dei rifugiati, dei lavoratori immigrati, degli stranieri». Le testimonianze, in quell’occasione, del vescovo di Molfetta, mons. Tonino Bello, e del vescovo di Acerra, mons. Antonio Riboldi, intesero ribadire la connessione tra sfide locali e globali, in un frangente storico in cui le emergenti pulsioni “nordiste” nelle aree più ricche dell’Italia settentrionale si alimentavano di sentimenti anti-meridionali e di parole d’ordine xenofobe nei confronti degli immigrati stranieri. L’intervento di Martini ebbe un forte impatto. All’indomani del discorso, il leader della Lega Lombarda, Umberto Bossi, attaccò duramente l’Arcivescovo. Intervenendo pochi giorni dopo al convegno ecclesiale promosso dalla CEI, "Immigrati: fratelli per un mondo solidale", il sociologo Achille Ardigò non solo si pronunciò a difesa dell’Arcivescovo di Milano, ma volle sottolineare la rilevanza delle sue parole

Il recente pesantissimo attacco, di un populismo xenofobo da respingere con sdegno, del capo della Lega Lombarda, il sen. Umberto Bos[1]si, per l’omelia del 6 dicembre del card. Martini, a favore dell’integrazione degli immigrati, è una spia delle implicazioni complesse che suscita il tema cui il nostro convegno è dedicato. Può essere che, proprio sui fenomeni umani e sociali di cui intendiamo occuparci, la fede religiosa non si accompagni più alla maggioranza fino a ieri silenziosa degli italiani cosiddetti benpensanti. Perciò la nostra gratitudine al card. Martini e a quanti altri nella Chiesa docente ci avvertono dei nuovi problemi di coscienza, anche controcorrente. E della loro ampia e drammatica portata.

Nel 1990 a Milano il Comune realizzò i primi centri di prima accoglienza per stranieri, anche se non bastavano a rispondere all’emergenza abitativa sempre più critica. Il 23 aprile nell’incendio di un edificio abbandonato in via Trentacoste, a Lambrate, che ospitava più di 300 immigrati, morì un giovane maghrebino, Mohssine. Per dare sistemazione a queste persone cruciale fu l’accordo del Comune con la Diocesi che aprì le parrocchie per dare un tetto agli immigrati. La Chiesa fu in prima linea nell’accoglienza, in una città che faticava a dare risposte adeguate. Benché disponibile ad una collaborazione in un frangente così drammatico, Martini fu attento a fare in modo che la Chiesa non supplisse totalmente ai doveri di solidarietà che spettavano alle istituzioni, nella convinzione che tutti dovessero impegnarsi nella costruzione di una società plurale, pena il prodursi di squilibri forieri di problemi e tensioni. Su questa linea si attestano anche i numerosi interventi pubblici dell’Arcivescovo per sollecitare le istituzioni a intervenire sul piano legislativo perché fossero riconosciuti adeguatamente i diritti degli immigrati. Martini avvertiva, però, che si dovesse andare oltre l’emergenza per operare a favore dell’integrazione, un processo delicato e complesso che richiedeva un’attenta gestione dei diversi aspetti, senza improvvisazioni ma neppure indugi:

Con intelligenza, lungimiranza, realismo e coraggio è necessario che, nelle sedi competenti, si prendano adeguati provvedimenti perché in ogni caso, ad ogni migrante – sia tale per liberà volontà o coercizione – siano riconosciuti i diritti fondamentali di ogni altra persona umana […] affinché […] le migrazioni in atto non siano causa di ulteriori e gravi squilibri sia per gli immigrati che per i paesi ospitanti […] Oggi è chiesto all’Europa – ancora attingendo alle sue radici – di saper accogliere altre culture e altre tradizioni, in un processo prudente ed equilibrato di apertura e di integrazione nei confronti di tutti coloro che chiedono ospitalità. […] In quest’ottica, è pure importante identificare alcune minime condizioni di integrabilità che occorre esigere e promuovere in tutti, ospitanti e immigrati. Si devono, cioè, stabilire le regole della casa che tutti devono osservare, entrando a farne parte: altrimenti non si avrà una casa comune e abitabile, ma il caos.

Un articolo di

Giorgio Del Zanna

Giorgio Del Zanna

Docente di Storia contemporanea - Università Cattolica

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