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Imaging Malawi, la Medicina a servizio della cooperazione internazionale

17 gennaio 2023

Imaging Malawi, la Medicina a servizio della cooperazione internazionale

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Si chiama “Imaging Malawi” ed è un’associazione di volontariato nata nel 2021 dall’iniziativa di un gruppo di giovani medici dell’Università Cattolica e della Fondazione Policlinico Universitario Agostino Gemelli IRCCS, in collaborazione con colleghi africani ed europei, con l’obiettivo di mettere in comune la conoscenza e l’esperienza appresa nelle aule e sul campo, in favore di nazioni e popolazioni dove scienza, strutture sanitarie a apparecchiature medicali non sono ancora all’avanguardia.

CattolicaNews ha incontrato la dottoressa Flavia Caprini (al centro nella foto), fra i promotori dell’Associazione, laureata nel 2018 in Medicina e chirurgia all’Università Cattolica e attualmente iscritta all’ultimo anno della Scuola di Specializzazione in Radiodiagnostica diretta dalla professoressa Evis Sala.

Dottoressa Caprini, anzitutto qual è stata la prima motivazione che vi ha spinto a “valicare i confini”, non solo geografici, ma anche della normale formazione e azione di assistenza?
«Credo fortemente che in un mondo globalizzato e “connesso” come il nostro sia una visione miope pensare di fare il lavoro del medico senza prestare attenzione a ciò che succede al di là delle mura del proprio ospedale, o Paese. Ciò non vuol dire dover per forza prestare servizio in Africa, ma quantomeno avere coscienza del fatto che mentre il mondo della medicina dell’eccellenza avanza ad una velocità incredibile, in molte zone del mondo, e non solo dell’Africa, anche l’accesso alle cure primarie non è spesso garantito».

Com’è la realtà formativa, scientifica e sanitaria in Malawi?
«Per far capire in parte la realtà sanitaria del Malawi porto l’esempio della Radiologia. Al momento in tutto il Paese ci sono solo cinque Radiologi, di cui solamente due lavorano in strutture pubbliche. È nata a settembre la prima scuola di specializzazione in Radiologia con cinque specializzandi, per cui nel giro di quattro anni, se questi giovani medici non lasceranno il Paese, il numero di radiologi dovrebbe raddoppiare. La realtà degli ospedali varia abbastanza se ci si trova negli ospedali delle città più grandi, dove si hanno anche macchinari come la TC e la RM, o in ospedali in zone rurali, dove l’infermiere o il tecnico di turno si trova spesso ad utilizzare ecografi generalmente ricevuti tramite donazioni senza una preparazione specifica. La realtà è quella di un Paese che sta provando a crescere, ma al quale mancano sia le risorse economiche sia, soprattutto, il “capitale umano”: molte delle persone che riescono a formarsi all’estero in ambito medico, come sonographer, medici specialisti o infermieri iperqualificati, poi difficilmente tornano in Malawi. Bisognerebbe cercare di incentivare una formazione di alto livello nel Paese, in modo da far crescere questo “capitale umano” e porre le basi per uno sviluppo futuro sostenibile. Bisognerebbe davvero puntare tutto sui giovani».

Quali sono state le esperienze più significative vissute fin qui? Ricorda episodi particolari?
«Sicuramente il corso intensivo di formazione in ecografia che abbiamo organizzato a novembre del 2021, a cui hanno partecipato 30 persone (per lo più tecnici ed infermieri) che provenivano da tutto il Paese. La maggior parte di loro eseguiva quotidianamente ecografie nella pratica clinica, ma ci siamo resi conto subito che il livello di formazione era bassissimo. Per quanto sia possibile fare in soli cinque giorni credo che abbiamo ottenuto dei risultati eccellenti. È stato molto bello e formativo, sotto tantissimi punti di vista e per quanto mi riguarda è stato un privilegio enorme. Tuttavia, ci siamo resi conto che questa esperienza, per quanto formativa sia per loro sia per noi, non si può considerare una soluzione autonomamente sostenibile. Ora stiamo cercando di concentrarci su soluzioni più durature, nonostante sicuramente a breve torneremo ad organizzare attività formative sul posto».

“Imaging Malawi” opera secondo lo spirito delle Nazioni Unite, nell’ambito degli obiettivi dell’Agenda 2030 e in collaborazione con il Ministero della Salute del Malawi, con le Università del Malawi e del North Carolina e altri organismi internazionali: quanto conta il network nelle vostre attività e com’è lavorare quotidianamente nel campo delle organizzazioni?
«Il network conta tantissimo, perché quello che facciamo in Malawi non lo facciamo “per la gloria”, mi passi il termine, ma per raggiungere dei risultati sostenibili. Il volontariato fine a se stesso non porta da nessuna parte a lungo termine, per ottenere risultati tangibili bisogna cooperare con tutti gli attori in campo. Per raggiungere questi risultati sarebbe impensabile agire da soli anche perché, banalmente, non abbiamo le risorse per farlo. Per questo, collaboriamo in primis con le istituzioni locali, come il Ministero della Salute del Malawi e le università locali, e poi anche con le altre NGOs come la nostra, o istituzioni accademiche (come la University of North Carolina), che operano in Malawi (anche da molto più tempo di noi). Al momento noi, collaborando con queste entità, facciamo parte di una rete, un consorzio di attori che prestano ognuno le proprie competenze e risorse per raggiungere obiettivi di sviluppo sostenibile».

Il nome della vostra associazione è interessante: si definisce 'imaging' la diagnostica per immagini, ma la stessa parola evoca il verbo della rappresentazione futura della realtà: quale futuro immaginate per il Malawi e, in generale, per i Paesi dove più vivo è il bisogno della cooperazione internazionale, soprattutto medico-sanitaria?
«È difficile fare previsioni, perché lo sviluppo di un Paese è sempre legato alla stabilità politica e ad altri fattori spesso imprevedibili. Sicuramente la cooperazione internazionale avrà un ruolo nello sviluppo del Malawi, anche sul piano sanitario. Ma è chiaro che se non verranno fatte le scelte giuste in ambito governativo, come investire sulla formazione dei giovani, difficilmente si avranno grandi cambiamenti a lungo termine. Anche nel nostro campo non bisogna “regalare pesci senza insegnare a pescare” ed è per questo che puntiamo tutto sulla formazione del personale sanitario. Vogliamo essere degli strumenti di crescita professionale, e quello che offriamo non sono macchinari all’avanguardia che resterebbero inutilizzati né denaro, ma le nostre conoscenze ed il desiderio di condividerle».

Progetti, auspici e obiettivi futuri?
«Al momento stiamo cooperando con RAD-AID e con l’Università del North Carolina per cercare di raggiungere obiettivi sostenibili a lungo termine. In particolare, stiamo collaborando alla nascita del primo corso di laurea in Diagnostic Ultrasound (per diventare Sonographer) del Malawi, che sarà offerto dal Malawi College of Health Sciences. Inoltre, favoriremo degli scambi e dei periodi di observership per nuovi specializzandi di radiologia in Malawi con la nostra sezione, in modo che possano imparare anche alcune aree della radiologia che non vengono ancora praticate (come la radiologia interventistica). Infine, stiamo in fase di fundraising per far nascere il primo “Centro di Eccellenza in Ecografia” del Malawi, nell’ospedale della capitale Lilongwe. Questo centro sarà il luogo fisico dove far convergere le attività di formazione di tutte le associazioni internazionali, ma anche i singoli individui, che vogliono organizzare corsi di formazione in ecografia, gestito in collaborazione con il Ministero della Salute locale».

Lei e alcuni di voi avete studiato all’Università Cattolica e ora rappresentate concretamente il senso della Medicina e, in generale, della Salute globale come intesa e trasmessa dalla Facoltà di Medicina e chirurgia del nostro Ateneo: qual è il messaggio che vorreste far arrivare ai più giovani studenti delle scuole superiori che stanno per scegliere il futuro del loro percorso formativo e, poi, professionale?
«Di cercare di avere sempre quella coscienza del mondo al di fuori delle nostre realtà privilegiate: è questa coscienza che ci ha spinti a metterci in gioco. Oltre al fatto che ognuno di noi ha e ha avuto le proprie più profonde motivazioni personali, sicuramente abbiamo avvertito tutti in parte un senso di ingiustizia e in parte il sentirsi in un certo senso responsabili di dover restituire parte dei privilegi che abbiamo ricevuto».  

Un articolo di

Federica Mancinelli

Federica Mancinelli

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