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In Congo con gli occhi di chi ci vive: «La speranza è nelle differenze»

05 marzo 2021

In Congo con gli occhi di chi ci vive: «La speranza è nelle differenze»

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Hanno il potere dei fucili ma il vuoto negli occhi. Basta farsi descrivere un bambino-soldato per capire cos’è la Repubblica Democratica del Congo oggi. Il paese in cui hanno perso la vita l’ambasciatore italiano Luca Attanasio e il carabiniere Vittorio Iacovacci è enorme, sconvolto da una guerra che si trascina da decenni, è il secondo paese più povero al mondo nonostante le sue immense risorse e la popolazione locale ha una cultura per certi versi molto lontana dalla nostra che a volte crea muri per chi arriva da fuori con l’intenzione di dare una mano: «Io vivo qui da 18 anni e ci sono ancora aspetti e loro usanze che non capisco» conferma Monica Corna.

Monica è la Rappresentante nel paese del VIS, Ong nata nel 1986 su ispirazione del Centro Nazionale Opere Salesiane e partner del Centro di Ateneo per la Solidarietà Internazionale per il Charity Work Program dell’Università. In Repubblica Democratica del Congo le attività principali dell'organizzazione sono la protezione dell’infanzia, programmi di educazione e formazione professionale e il rafforzamento delle organizzazioni della società civile e degli altri attori di sviluppo.

Il suo arrivo a Goma, principale città dell’Est del paese e sede della missione Onu MONUSCO, è avvenuto poco dopo una tremenda eruzione nel gennaio del 2002: «Sembrava di essere finiti all’inferno. Nonostante la lava fosse solida i piedi scottavano, le strade erano chiuse e il commercio inesistente. La città era completamente sconnessa dal resto del paese, che è grosso otto volte l’Italia. Per raggiungere la capitale Kinshasa bisognava attraversare il confine con il Rwanda e prendere un aereo».

Quando Monica è arrivata in Congo la città contava 300mila abitanti mentre oggi sono circa due milioni, nonostante si trovi in una zona molto precaria battuta da oltre un centinaio di gruppi armati ribelli: «Ci si abitua a vivere in questa condizione -racconta- ma il fatto che in città ci sia il contingente militare Onu più importante del paese rende il nostro lavoro abbastanza sicuro, anche se nulla può dare garanzie qui. La nostra protezione più grande, oltre al supporto dei salesiani, è lo stretto contatto che abbiamo con la gente, che ha imparato a conoscerci e ci avvisa in caso di allarme».

Non gode dello stesso appoggio MONUSCO, la missione di peacekeeping Onu forte di oltre quindicimila militari presente nel paese dal 2000: «La gente non capisce perché sono così tanti e cosa fanno qui -spiega Monica-, ci sono stati molti scandali legati alla presenza delle Nazioni Unite. Certo hanno impedito che Goma venisse presa dai ribelli durante le ultime due guerre combattute nel 2007 e nel 2012 ma non hanno mandato di intervento e in tanti momenti non sono scesi in campo a fianco dell’esercito congolese. Questo è uno dei motivi per cui la popolazione vuole che se ne vadano».

Proprio a circa 300 km a sud di Goma sono stati uccisi Attanasio e Iacovacci: «Ho conosciuto Luca, era un ambasciatore vero. Non un burocrate. Era molto presente dal punto di vista umano nonostante fosse di base a Kinshasa e sapeva ascoltare, una dote non comune per gli occidentali che operano qui. Lui incoraggiava molto i progetti di cooperazione con i locali, tanti invece vengono qui pensando di essere migliori e così facendo non riescono a trovare punti di contatto con la gente. Diversi canali di finanziamento seguono le mode occidentali: molti soldi oggi arrivano per contrastare il Covid-19 perché da noi si pensa che sia una priorità mentre qui è l’ultimo dei problemi. Sono molto più devastanti malaria, morbillo e tubercolosi».

Repubblica Democratica del Congo: un paese instabile

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Un articolo di

Michele Nardi

Michele Nardi

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Ma oltre alle mode questo atteggiamento crea muri che poi diventano insormontabili. Un esempio è la stregoneria: in Congo molti credono ancora che ci siano persone che desiderano il male. Quando non si riesce a comprendere l’origine di una malattia la causa viene sempre attribuita a un avvelenamento. Capita che bambini di due anni cadano sotto accusa di stregoneria: «L’educazione cambierà questa percezione -continua Monica- e già rispetto a 18 anni fa questa credenza è meno forte ma serve tempo per sradicarla. Per fare un buon lavoro qui bisogna fare i conti con aspetti come questo. Dobbiamo essere in grado di valorizzare le differenze ed è questa la scommessa da fare per il futuro di questo paese: creare un sistema che non le annulli ma che permetta di conviverci».

Insomma, il punto cruciale è come giocarsi nel rapporto con la gente: «Nel 2019 la popolazione ha attaccato gli studi medici creati per combattere Ebola perché ci sono state Ong che hanno agito in modo molto brusco, costringendo tanti a entrare in cliniche da cui non sono più usciti vivi. Ebola qui è molto temuta e ha raggiunto tassi di mortalità del 70%. Anche in questo caso ci sono state speculazioni economiche. Questo ha generato equivoci, che sommati alla impreparazione del personale sanitario locale hanno contribuito a generare intolleranza».

Ma c’è sempre speranza: «Pensiamo ai bambini-soldato. Spesso vanno loro volontariamente dai gruppi ribelli per poter acquisire il minimo di potere che consente di commettere razzie e stupri, non pensano che con quella gente possano morire appena commettono un errore. Per via delle atrocità che commettono le loro famiglie non li vogliono più indietro. Se gli si offre una alternativa valida questi bambini hanno una capacità di ripresa incredibile. Se mangiano regolarmente e hanno il loro tempo occupato il cambiamento è rapidissimo. In Italia invece ci vorrebbero anni di psicoterapia. Con il nostro centro Don Bosco siamo riusciti a recuperarne diversi, a inserirli in percorsi di formazione professionale o di istruzione. Questo purtroppo dipende anche da quanto in fretta si riesce a intercettarli. Più passa il tempo e più è complicato».

L’esercito congolese sta portando avanti attività per ridurre il loro impiego ma per contrastare il fenomeno serve andare alla radice del problema: «L’estrema povertà in cui vivono tante famiglie le spinge a far partire i loro figli, che altrimenti non saprebbero come mantenere -conclude Monica-. Abbiamo aperto dei progetti dedicati al microcredito per donne o ragazze madri, qui sono loro a dover mantenere la famiglia e così riescono a migliorare la soddisfazione di bisogni primari come istruzione e alimentazione. Qui capita di mangiare anche solo una volta al giorno. Sono tanti piccoli risultati, ma unendoli assieme diventano grandi».

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