Secondo gli ultimi dati Istat, nel 2021 in Italia le famiglie in condizione di povertà assoluta sono quasi 2 milioni, il 7,5% del totale. Una situazione che rischia di peggiorare nei prossimi anni anche a causa di un lavoro sempre più precario, irregolare, con una retribuzione che non consente di vivere un’esistenza dignitosa. Di questo si è parlato nel secondo incontro del ciclo "Economia e benessere: il valore economico del contrasto ai rischi sociali", promosso dalla Facoltà di Economia nel campus di Roma, con l’evento “Contro la povertà. I rimedi alla disoccupazione e la tutela del lavoro” a cui sono intervenuti la preside della Facoltà di Economia, Antonella Occhino, i professori della Facoltà di Economia, Ivana Pais, Ordinaria di Sociologia del lavoro, Gilberto Turati, Ordinario di Scienza delle finanze, Arturo Maresca, Emerito di Diritto del lavoro all’Università La Sapienza di Roma, e Tiziano Treu, Emerito di Diritto del lavoro all’Università Cattolica. A portare la sua testimonianza anche Gloria Maria Zurlo, Alumna della Facoltà di Economia nel campus di Roma.
«Oggi avere un lavoro non significa eliminare la povertà – ha spiegato la preside Occhino – Le persone si scontrano con lavori saltuari, frammentati, che non portano stabilità. Inoltre negli ultimi anni sono cambiate le professionalità, i linguaggi, la preparazione. Per questo è importante ragionare su come tutelare il lavoro e indicare delle soluzioni contro la disoccupazione. Sono convinta che se non si ha una solida base di conoscenze e competenze, diventa complicato affermarsi nel mondo del lavoro. Le nuove professionalità devono stimolare una riflessione sulla formazione, che è il miglior antidoto alla disoccupazione strutturale».
«Diverse ricerche evidenziano il fatto che la povertà viene percepita come colpa personale e la ricchezza come merito individuale – ha sottolineato la professoressa Pais -. Riletto in termini sociologici, significa che collettivamente ci stiamo spostando verso un “locus of control” interno. Se si pensa che il fallimento o il successo dipenda soltanto da noi stessi, si influenzano le decisioni successive”. Pais ha poi analizzato il fenomeno del crowdfunding attraverso l’esempio del forno Brisa di Bologna, nato dall’incontro di due studenti con la passione per gli impasti e la panificazione. “Attraverso due crowdfunding distinti sono riusciti a raccogliere 1,2 milioni di euro e poi ben 4,2 milioni di euro, realizzando tutti i progetti previsti e ampliando la rete di collaborazione con altri professionisti della panificazione artigianale e agricola».
«Una premessa è doverosa: la povertà è un concetto multidimensionale, conta il reddito ma anche il cibo, la casa, la salute, i trasporti – ha dichiarato il professor Turati –. Focalizzandoci sul lavoro e analizzando gli ultimi dati Istat, possiamo dire che alcune persone sono povere perché non hanno occupazione, altre sono povere pur lavorando. Per chi non ha occupazione, il primo rimedio riguarda l’istruzione. L’incidenza della povertà assoluta decresce al crescere del titolo di studio della persona di riferimento della famiglia. Se quest’ultima ha conseguito almeno il diploma di scuola secondaria superiore, l’incidenza è pari al 3,9%, mentre si attesta all’11% se ha al massimo la licenza di scuola media. Per chi invece ha un lavoro, il rimedio si chiama “salario minimo”, oggi presente in 21 dei 27 Stati membri dell’Unione Europea».
«La nostra Costituzione stabilisce che chi lavora deve avere una retribuzione sufficiente ad assicurare a sé e alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa - ha ricordato il professor Maresca - quindi al di sotto di certe condizioni economiche non si può lavorare. Se questo accadesse, potremmo dire che il lavoro è la risposta contro la povertà. Ma sappiamo che oggi vengono negati i diritti che spettano al lavoratore, tanto che se ci fosse un Ispettorato del lavoro che funzionasse, quel lavoratore non sarebbe povero. In Italia manca la capacità di accedere a quei diritti, dunque la prima associazione tra lavoro e povertà riguarda lo sfruttamento. La seconda associazione, invece, riguarda il lavoro precario, che non è irregolare, ma che mette in discussione la continuità del lavoro e del reddito. Sono questi i due scogli da superare per tutelare il lavoro e quindi rispondere alla crescente povertà».
«Anni fa si pensava che il progresso avrebbe sconfitto la povertà e ridotto le disuguaglianze, invece siamo ancora qui, a cercare di capire le radici di questo fenomeno – ha dichiarato il professor Treu -. Ci arrovelliamo sul perché oggi il lavoro non basti a eliminare la povertà. D’altronde l’occupazione è profondamente cambiata, il lavoro è diventato precario, le donne fanno mestieri più spezzettati, si ricorre spesso alle piattaforme, un fenomeno che non riguardano solo i rider. Di fronte a questo scenario, il salario minimo non è il toccasana, non basta dire facciamo la legge e tutto si risolve perché sappiamo che non è così».