NEWS | 1923-2023

Italo Calvino, un anti-maestro

14 ottobre 2023

Italo Calvino, un anti-maestro

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Sono passati cento anni dalla nascita di Italo Calvino, scrittore tra i più apprezzati in Italia e non solo, e tra gli autori più letti nelle scuole. Scrittore, giornalista, figura di spicco per il suo impegno politico e civile Calvino è stato una incredibile fonte di ispirazione. Con i suoi romanzi, novelle e saggi ha saputo ispirare scrittori, musicisti, architetti.

In occasione del centenario della nascita dello scrittore - Calvino nacque il 15 ottobre 1923 a Santiago de Las Vegas, Cuba - il professor Giuseppe Lupo, docente di Letteratura italiana dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, propone una riflessione sulla sua vera eredità, vale a dire il lascito di un autore sempre in controtendenza rispetto al proprio tempo.  


Il centenario di Italo Calvino, oltre che una tappa celebrativa, può essere anche l’occasione per riflettere sul lascito di questo autore che il Novecento ci ha consegnato nella fisionomia di un anti-maestro (più che di un maestro), cioè di un letterato abituato a procedere in controtendenza, senza indulgere nelle mode del momento, anzi con il piglio battagliero di chi va contromano.

Potrebbe risultare indicativa, per esempio, la posizione che assume negli anni Cinquanta, in un’epoca votata al racconto della società secondo i paradigmi del realismo, perfino quello di marca ždanovista, pensando che dal suo scrittoio vengono fuori la trilogia dei Nostri antenati (1960) e il grande lavoro di selezione condotto in vista delle Fiabe italiane (1956). Ciò non significa che Calvino non si sia interessato di questioni politiche. Sono proprio gli equilibri ideologici a dominare la sua scrivania e in un certo modo il tributo che egli paga alla tessera del Pci rimanda direttamente a quel manipolo di testi in apparenza impregnati di ragioni civili assai più del Visconte dimezzato (1952) o del Barone rampante (1957) o del Cavaliere inesistente (1959). Lo indica Una giornata di uno scrutatore (1963): un racconto a tema elettorale che presto si trasforma in un’indagine sull’umanità afflitta da imperfezioni fisiche.

Come non pensare, sempre per aggiungere esempi di questa latente inappropriatezza con il secolo, che il 1963 è anche l’anno in cui vengono radunate le storie di Marcovaldo, un operaio bene inserito nel quadro di quella narrativa di fabbrica che tanto avrebbe spopolato negli anni a ridosso del boom economico, personaggio però in conflitto con la maschera ideologica dei suoi colleghi, trasognato, velleitario, disposto a patire le angustie della fabbrica in cambio di uno spicchio di natura – i funghi, i colombi, i pesci, le vespe, la luna – che non muore dentro l’orizzonte delle ciminiere, anzi si ribella, causando però solo danni. D’altra parte, sta proprio qui la singolarità di questo individuo strampalato che riproduce le idiosincrasie di chi l’ha messo al mondo. Sicché dovrebbe meravigliare non poco se nella stagione dominata dal bisogno di una letteratura sostanziata da elementi sociologici Calvino imbocchi la strada che porta all’inesistenza (com’è appunto il corpo del suo Cavaliere) o all’invisibilità, che è la materia prima delle città narrate a Kublai Kan da un visionario Marco Polo in un tempo che non c’è e in una terra che non si vede. «In un’epoca in cui tanta parte di ciò che esiste non esiste» dichiara in una lettera a Guido Piovene del 24 maggio 1963, dopo aver letto Le Furie (1963), «i temi del nulla e dell’inesistenza diventano i temi fondamentali e impongono opere e immagini ed enunciazioni dai contorni frastagliati ed elusivi». Siamo già dentro i principi di quella poetica che avrebbe portato alla leggerezza, la prima delle Lezioni americane (1988), tema anche questo subdolo, spesso abusato e forse malinteso o, meglio, inteso nella maniera peggiore, come sinonimo di banale superficialità, diventato bandiera di un decennio derubricato erroneamente sotto l’insegna del disimpegno, dell’edonismo, della selvaggia ricerca di un divertimento che ripagasse le generazioni giovani e meno giovani del tributo pagato al peso degli anni di piombo.

Tutto questo può fare di Calvino scrittore di un antinovecento? Probabilmente sì, se per antinovecento intendiamo l’atteggiamento di chi anticipa i fenomeni anziché scegliere di accodarsi, rifacendone il verso. Eppure l’etichetta di scrittore antinovecentesco non basta a sciogliere i nodi di una complessità che si manifesta a più livelli: la fiaba al posto della realtà, la ricerca spasmodica di un metodo razionale per sfidare il labirinto, una sintassi paratattica invece delle gerarchie ipotattiche, l’invito a «togliere peso» senza intaccare il principio della profondità. A questo punto resta da domandarsi se sia vera l’ipotesi di un Calvino frainteso, se cioè l'invito alla leggerezza e alla rapidità quale metodo semplicistico e semplificatorio per derubricare i vizi di un secolo non coincida con una lettura ad usum che proprio il Novecento, giunto al suo capolinea già negli anni Ottanta, ha deciso di intraprendere per sopravvivere a se stesso. Un Calvino frainteso sarebbe un’idea credibile e suggestiva, perfettamente coerente con le aporie di un Novecento anch’esso male interpretato. E sarebbe anche il volto più autentico di qualcosa che non torna, un’eredità mancata.

Un articolo di

Giuseppe Lupo

Giuseppe Lupo

Docente di Letteratura italiana - Università Cattolica

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