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La pandemia ha lasciato le donne “in apnea”

03 dicembre 2021

La pandemia ha lasciato le donne “in apnea”

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Cariche di lavoro, stressate, meno produttive. È l’identikit delle lavoratrici donne durante la pandemia, costrette a pagare un costo dell’emergenza sanitaria più alto rispetto a quello pagato dagli uomini. Basti pensare che dei 444mila occupati italiani che nel 2020 hanno perso il lavoro il 70% era costituito da donne. Anche la violenza di genere e il gender gap sono aumentati. Nello stesso anno c’è stato un boom di chiamate al numero 1522 rispetto al 2019 (+79,5%) con picchi nei mesi del lockdown. Mentre è stato pressoché marginale il coinvolgimento di donne nelle task force anti-Covid: in Italia fino a metà maggio, nessuna era stata coinvolta nel comitato tecnico scientifico che da inizio marzo aveva iniziato a coadiuvare il governo e solo il 20% degli esperti coinvolti dalle istituzioni locali erano donne.

Uno scenario sconfortante che ha contribuito a peggiorare le condizioni socio-economiche e lavorative al femminile in un Paese dove il divario di genere è già tra i più alti al mondo. Per indagare in profondità i vissuti delle lavoratrici e la complessità della situazione che stanno vivendo con l’obiettivo di identificare ambiti e soluzioni di intervento nel marzo 2020 è nato il Progetto Career - CARE for womEn woRk, finanziato dal Fondo Integrativo Speciale per la Ricerca e frutto della collaborazione tra Università Cattolica del Sacro Cuore e Politecnico di Milano.

I risultati finora raccolti dal Progetto Career sono stati illustrati mercoledì 1° dicembre durante il convegno “Donne tra lavoro e cura. Cosa possiamo imparare dalla pandemia”, aperto dal pro rettore vicario dell’Ateneo Antonella Sciarrone Alibrandi e coordinato da Claudia Manzi, docente di Psicologia sociale, tra le coordinatrici di Career.

Evila Piva, docente di Entrepreneurship al Politecnico di Milano, affidandosi a evidenze empiriche raccolte da fonti secondarie ha analizzato le “condizioni socio-economiche delle donne in Italia”. «Nel 2020 la pandemia ha amplificato il divario occupazionale di genere già esistente nei più popolati Paesi dell’Unione Europea» e, soprattutto, in Italia, «ha peggiorato le condizioni di lavoro delle donne rispetto a quelle degli uomini». Le restrizioni messe in atto per contenere la diffusione del virus hanno infatti aumentato il carico di lavoro sia di cura sia domestico accentuando i già esistenti «squilibri di genere nella distribuzione di questo lavoro non retribuito». Come se non bastasse si è verificata anche una «significativa contrazione nella creazione di nuove imprese da parte di imprenditrici donne».

Donne «senza respiro»

Da questo punto di vista è quanto mai appropriato il titolo dello studio “Donne ‘in apnea’ tra carichi di cura e minaccia identitaria”, a cura di Silvia Donato, docente di Psicologia Sociale in Cattolica. Infatti, le misure correlate all’emergenza sanitaria hanno lasciato «senza respiro» non solo a livello fisico ma anche sociale e relazionale. Ma cosa ha comportato questa mancanza di ossigeno per le lavoratrici? I dati dello studio cross-culturale che ha coinvolto 1.700 partecipanti in tre paesi europei - Grecia, Spagna, Italia - mostrano, soprattutto in quest’ultimo, una forte contrazione degli aiuti provenienti dall’esterno: infatti, a fronte del 55% di rispondenti italiane che dichiara di essersi occupata da sola delle faccende domestiche e dei carichi di cura, sono “solo” il 31 e il 35% di donne rispettivamente in Spagna e Grecia che dichiarano di trovarsi nella stessa situazione. Una diminuzione di respiro per le lavoratrici italiane dovuta anche al poco sostegno del partner e a una sbilanciata distribuzione dei compiti nella gestione della vita familiare. Non è un caso che le italiane intervistate dichiarano «maggiore stress» e «minore performance lavorativa», non solo rispetto ai partecipanti di genere maschile, ma anche rispetto alle partecipanti spagnole e greche.

La fatica dello smart working

Quindi se, da un lato, lo smart working inizialmente è stato per molti un’ancora di salvezza, dall’altro, nel tempo si è rivelato una fatica. I segnali e le conseguenze della pandemia sul benessere mentale delle donne sono evidenti. Lo testimonia anche un altro studio, condotto nell’ambito di Career, “Esperienze e vissuti di genitori e caregiver lavoratori durante la pandemia”, delle sociologhe Sara Mazzucchelli e Maria Letizia Bosoni. Dall’analisi condotta su interviste di gruppo cui hanno partecipato 29 lavoratori e lavoratrici emerge una valutazione ambivalente rispetto al lavoro da casa. Se, da una parte, lo smart working è stato un’opportunità di crescita e di sviluppo di maggior senso di appartenenza alla propria famiglia, nonché una occasione per i figli di maturare consapevolezza riguardo il lavoro dei genitori, dall’altra parte «le difficoltà che i partecipanti hanno sperimentato nel conciliare l’ambito lavorativo con quello familiare sono state vissute in maniera molto negativa, con prevalenza di emozioni come paura, sensi di colpa, inadeguatezza, stanchezza e sensazione di rifiuto». Difficoltà «acuite nel gruppo dei caregiver che, pur beneficiando di una positiva riduzione degli spostamenti, si è trovato in una condizione di maggiore solitudine, carenza di aiuti esterni e ancor più schiacciato e in affanno nel gestire l’impegno prolungato nel lavoro da casa e la cura domestica di familiari non autosufficienti».

In presenza o da remoto, come cambia la produttività

Al di là della modalità di vedere lo smart working, c’è un quesito che tutti si pongono: si è più produttivi da casa o in ufficio? A rispondere è lo studio “La produttività dei lavoratori in lavoro remoto e da casa: evidenze da un caso studio sull’uso del tempo”, realizzato da Claudio Lucifora, docente di Economia Politica in Cattolica. Tramite la metodologia di indagine di utilizzo del tempo dei diari, sono stati seguiti 80 lavoratori in due differenti giornate lavorative: una svolta da casa e una svolta dall’ufficio. «I dati mostrano una sostanziale parità in termini di produttività tra lavoro da casa e lavoro in ufficio. In altri termini sia uomini che donne sono ugualmente efficienti nei diversi contesti». Ciò che cambia, soprattutto per le donne è l’organizzazione e la qualità del lavoro. Nello specifico, quando lavorano da casa, non avendo da fare spostamenti e incontri sociali in entrata in ufficio, le donne si immergono con profitto nel lavoro dalle prime ore del mattino per poi prendersi una pausa più lunga durante l’ora di pranzo e terminare l’attività lavorativa in orario. Lavorando in ufficio è invece più frequente che l’orario di lavoro prosegua oltre il previsto». Viceversa, però, quando sono a casa la qualità del lavoro delle donne peggiora, perché sono più frequentemente interrotte da questioni familiari. Infatti, la maggior parte delle intervistate si dice meno soddisfatta della distribuzione dei compiti in famiglia e dichiara di occuparsi da sola sia della gestione delle faccende domestiche (63%) sia di seguire le attività scolastiche dei figli (82%).

Gli effetti sulle donne ricercatrici

Tuttavia, quando si parla di parità di genere spesso si dà poca importanza all’aspetto dello spazio. Rischio evitato da Cristina Rossi Lamastra e Alessandra Migliore, entrambe del Politecnico di Milano, che hanno preso in esame “Le scelte localizzative di ricercatori e ricercatrici durante la pandemia e gli effetti sulla produttività”. Dall’analisi “L’equità è una questione di spazio” s’intravede chiaramente l’effetto devastante dell’emergenza sanitaria sulla produttività scientifica delle donne. La presenza di figli e la qualità dello spazio le ha portate a scegliere durante l’emergenza sanitaria un modello casa-centrico. Quando poi si è dovuto ritornare in presenza la scelta libera su dove lavorare è stata soprattuto maschile. Il risultato? Dallo scoppio della pandemia la produttività scientifica degli uomini è stata superiore rispetto a quella delle donne che, a causa del nomadismo della postazione e della gestione della vita familiare, hanno dovuto sacrificare la propria attività di ricerca.

Il welfare

Come innescare allora un’inversione di marcia visto che i cambiamenti relativi al lavoro da remoto non termineranno con la pandemia? Un primo ingrediente per sostenere le donne lavoratrici potrebbe essere il welfare. Ne sono convinte le interlocutrici Lucia Scopelliti, direttrice Organizzazione e Sviluppo Professionale del Comune di Milano, e Sara Callegari, Hr Director di Engie Italia, che coordinate dal docente di Sociologia Luca Pesenti hanno partecipato alla tavola rotonda “Rilanci per il futuro delle donne lavoratrici”. Un welfare però inteso «in senso ampio» che non si risolva nel semplice voucher o nella piattaforma aziendale. Serve, infatti, una cultura organizzativa per evitare il rischio di ridurre il lavoro a una performance dimenticando quello che è il suo vero significato.

 

Un articolo di

Katia Biondi

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