Medici, operatori sanitari, parenti delle vittime della pandemia Covid-19. E, in collegamento, lo scrittore Paolo Giordano, testimone privilegiato di quei giorni. Sono i protagonisti della presentazione del progetto di giustizia riparativa, realizzato con la Società italiana medicina d’emergenza-urgenza (Simeu), promosso dalla sede di Brescia dell’Università Cattolica, all’interno del master in Giustizia riparativa, e dall’Istituto di mediazione familiare e sociale di Brescia. Gli obiettivi sono stati molteplici: da un lato, offrire uno spazio per la riparazione degli effetti laceranti della pandemia, all’interno di un processo ancora attuale, vista la crescente conflittualità e insoddisfazione rispetto al Sistema sanitario nazionale; dall’altro, validare una pratica innovativa di giustizia riparativa.
«Il percorso che abbiamo proposto ha avuto certamente degli effetti riparativi per lo meno sul vissuto delle persone coinvolte» ha fatto notare il direttore del master Giancarlo Tamanza. «A livello comunitario e sociale non possiamo saperlo». Del resto il senso della giustizia riparativa è proprio «ascoltare la voce di tutti» come rileva la direttrice del Cerisvico Elena Marta, secondo cui «abbiamo archiviato la pandemia senza ricostruire il senso e senza ascoltare». Per il past president Simeu Fabio De Iaco, primario di pronto soccorso in prima linea, che si definisce un «reduce», questo percorso ha messo in evidenza il fatto «che non esista l’onnipotenza della medicina, che ci sia incertezza e che serva responsabilità».
Ma come si è svolta questa esperienza di rielaborazione del Covid, che è stato la «più grande frattura accaduta dal 1945 a questa parte, come l’ha definito Massimo Cirri, conduttore radiofonico e psicologo, introducendo il confronto tra medici e parenti delle vittime? La giornalista e diplomata al master Wanda Marra ha spiegato di aver scelto «due categorie di persone, che erano entrambe vittime, costituendo un gruppo per ciascuna tipologia», e offrendo loro «uno spazio protetto, sicuro, con la garanzia di non essere giudicati» come ha ricordato Maria Grazia Modesti. «Solo in un secondo momento si è costituito un unico gruppo, condotto con le tecniche della giustizia riparativa e del dialogo circolare. La rabbia si è sciolta, con momenti catartici».
Una sensazione condivisa anche da parte delle vittime, «non reduci, ma sopravvissuti» come ha fatto notare la tirocinante del master Adriana Vignoni. Pia Rosani, moglie di un primario che, dopo aver affrontato la pandemia in ospedale si è ritrovato improvvisamente nei panni del paziente ed è morto solo in ospedale, ha raccontato la sua storia di dolore e angoscia. «Incontrare i medici mi ha portato serenità» ha detto in riferimento al percorso di giustizia riparativa. «Questo progetto è una modalità che fa bene e può far bene anche a tante altre persone». Quello che è necessario, secondo la coordinatrice didattica del master Ilaria Marchetti, è «trasformare la tragedia in trauma per poterlo superare».
Lo conferma anche Marco Vergano, medico anestesista e rianimatore al San Giovanni Bosco di Torino, che nel 2020 scrisse il documento sulle priorità in rianimazione, i criteri per decidere in situazione di emergenza chi dovesse avere la precedenza nelle cure. Pur nel ricordo doloroso di quegli anni, anche Vergano, alla fine del percorso di giustizia riparativa, ammette che «è stato rassicurante scoprire che, nonostante le cicatrici che ciascuno si portava dentro non è emersa nessuna vera contrapposizione tra operatori sanitari e familiari delle vittime». Forse il dramma più grande è stato la morte in solitudine. Se la chiusura dei reparti Covid era comprensibile nella prima ondata del 2020, «dal 2021 in avanti molte misure restrittive sono state spesso ingiustificate e fonte di grande sofferenza, evitabile».
Quello che è mancato in questi anni, secondo lo scrittore Paolo Giordano, è un’ottica di riparazione collettiva. «La grande occasione di destino comune delle prime settimane è stata completamente dimenticata». Anche perché, «dal punto di vista politico non c’è alcun interesse a mettere in atto un processo di pacificazione collettiva». Nell’esprimere soddisfazione per la dinamica di ascolto del progetto della sede di Brescia, Giordano ha affermato che però «in giro non c’è nessuna evidenza». Una visione condivisa da Alfredo Bazoli, nella duplice veste di politico e di parente di una vittima (non del Covid ma della strage di Piazza Loggia), che nell’esprimere apprezzamento per la giustizia riparativa, ne ha indicato anche qualche rischio.
Un’ultima parola di ottimismo l’ha pronunciata Irena Cara, all’epoca specializzanda, travolta come tutti dallo Tsunami del Covid. «Non avevo idea di cosa fosse la giustizia riparativa, ma ne sono uscita con una grande speranza: che sia lo strumento per ricostruire il patto sociale», perché come ha sottolineato il co-direttore del master Luciano Eusebi «il tempo del dialogo è tempo di cura» (Legge 219).