NEWS | Carcere

La salute senza sbarre

20 aprile 2021

La salute senza sbarre

Condividi su:

«Il Covid ha messo in luce la fragilità del sistema penitenziario che si rivela inadeguato a mantenere la dignità umana, oltre che esposto alla possibilità di un aumento del contagio. È una sfida di civiltà». Le parole del preside della facoltà di Giurisprudenza Stefano Solimano hanno aperto il webinar “La salute senza sbarre. L’emergenza pandemica come sfida di civiltà per il sistema penitenziario” dei giorni scorsi. 

Un’occasione unica per riflettere sul sistema carcerario che ospita una tra le fasce più fragili della popolazione. Come ha ricordato il direttore del Dipartimento di Scienze giuridiche, Antonio Albanese, «il diritto è una tutela delle esigenze delle persone e soprattutto di quelle più deboli. lI detenuto è uno degli ultimi». 

L’anno che ci siamo lasciati alle spalle ha rappresentato anche per la realtà carceraria un unicum nella storia e, se da un lato resta indiscutibile la sua drammaticità, dall’altro si possono cogliere segnali positivi e soprattutto, come dice il titolo dell’incontro, una sfida di civiltà.  

Il tema centrale della tutela della salute in carcere è stato evidentemente acuito dal Covid-19 poiché se una struttura chiusa ha il vantaggio di limitare la possibilità di contagio dall’esterno, nel momento in cui si dovesse rompere la barriera il pericolo diventerebbe molto più elevato a causa degli spazi ridotti e del sovraffollamento con la conseguente impossibilità di mantenere il distanziamento. 

A questo problema se ne aggiunge un altro altrettanto importante: come ha affermato la Corte costituzionale con la sentenza 99 del 2019, il diritto alla salute previsto dall’articolo 32 della Costituzione si intende comprensivo non solo della salute fisica ma anche di quella psichica. Limitando i rapporti con i parenti all’esterno ma anche quelli tra detenuti all’interno, si sono ridotte le possibilità di affrontare le attività quotidiane come interventi medici, attività trattamentali e sono state sospese quelle lavorative. Tutto ciò ha causato gravi disagi alle persone ristrette negli istituti penitenziari, come ha sottolineato Giovanni Salvi, Procuratore generale presso la Corte Suprema di Cassazione, che ha aggiunto come, «in conformità con la legge 106 del 2006 che affida al procuratore generale, tra l’altro, compiti di orientamento per i singoli uffici delle procure, sia stato possibile dallo scorso aprile 2020 favorire un ricorso minore alla custodia cautelare in carcere». 

In particolare dopo le rivolte avvenute nelle carceri di San Vittore, Opera e Pavia, la magistratura di sorveglianza di Milano, insieme con l’amministrazione penitenziaria, ha attivato un meccanismo di selezione delle istanze dei detenuti da portare avanti. «Molti di loro, infatti, potrebbero fruire di misure alternative e sono i tempi della giustizia a gestire l’ordine di chiamata delle varie istanze - ha dichiarato Giovanna Di Rosa, Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Milano -. Grazie al lavoro dei magistrati di sorveglianza che hanno verificato lo stato di salute, la complessità della situazione sanitaria rispettando l’umanità della persona, in un tavolo regionale insieme con Caritas ambrosiana sono stati identificati alloggi disponibili ad esempio per detenuti molto anziani che hanno continuato a svolgere la pena in ambito domiciliare. Inoltre sono state evase quasi cinquemila istanze, diminuendo il sovrafollamento dal 138% al 119% alla fine di aprile 2020».

In molti casi si tratta di immigrati non regolari, di persone sole o che non sarebbero accolte né aiutate dalla propria famiglia. Queste incidono sull’affollamento carcerario e vengono punite due volte: per il reato commesso e per la loro marginalità. 
«Dando uno sguardo ai numeri oggi i detenuti sono definitivi nel 69% dei casi e non è realistico pensare che si possa scendere sotto una certa soglia. Per questo non si può dire che non si costruiranno nuovi carceri ma «certamente - ha concluso il Procuratore generale Salvi - abbiamo bisogno di carceri diversi. Di “nuovi carceri” perché si possa contenere il numero giusto di detenuti e di “carceri nuovi” per garantire loro il rispetto dei propri diritti e una vita dignitosa».

«I dati nazionali dicono che a marzo 2020 i detenuti erano 57.846 e al 31 marzo 2021 erano 53.509 sui 50.779 che rappresentano la capienza regolamentare - ha dichiarato Gianluca Varraso, professore di Diritto processuale penale e Diritto penitenziario in Università Cattolica -. Questo significa che gli interventi legislativi con cui si è affrontato il Covid hanno avuto un qualche effetto, ma ancora insoddisfacente. Continua infatti a sussistere il problema del sovraffollamento».

I numeri servono a capire le dimensioni di una realtà complessa come quella detentiva ma oltre le cifre, oltre le lentezze burocratiche, oltre le difficoltà organizzative ci sono molte qualità che la raccontano. «Lo spirito di collaborazione tra le persone, il coraggio di fare scelte al buio perchè non ci sono precedenti, l’equilibrio e la ponderazione, la relazione umana, la lungimiranza, il riferimento ai principi costituzionali». Nominando queste qualità il Provveditore Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria per la Lombardia, Pietro Buffa, ha riportato l’attenzione sulla necessità della cura: «La popolazione in carcere è sempre più dolente, molto più complessa e fragile rispetto a trent’anni fa. C’è bisogno di tanta cura, non solo clinica, ma anche sociale oltre che giudiziaria e penitenziaria. E questo ha a che fare con l’empatia». 

Il Provveditore ha sottolineato come in occasione delle rivolte dei detenuti nel marzo 2020 ci siano stati sette giorni di notizie serrate seguiti da un anno di silenzio. Eppure se nella prima ondata si sono contati 40 contagi tra quei detenuti, nella seconda ce sono stati 450. Cosa è successo in quel lasso di tempo? Sono aumentati i suicidi e i gesti depressivi. «Parlando con i detenuti la parola più pronunciata è stata “libertà” - ha aggiunto il Provveditore -. Pochi hanno parlato di contagio e di pandemia ma tutti hanno parlato della libertà e della giustizia. E io mi sono chiesto: siamo sicuri che non ci sia un senso politico in quella rivolta? O siamo noi incapaci di comprendere la motivazione della loro rabbia? Penso che si tratti di una nostra incapacità». 

La rivendicazione dei detenuti riguarda la dignità umana misconosciuta ai più e il carcere oggi resta ancora un luogo di pena, non di cura.  «Il virus ha dato l’opportunità di evidenziare le criticità del nostro sistema che vede il carcere come una monade e di riflettere su una visione sistemica che consenta di superare lo scollamento tra carcere e società». Un pensiero condiviso da Varraso: «Bisogna riformare il sistema penale che non metta più il carcere al centro.  Questa è una sfida: il carcere non deve più essere la pena più importante».

Per pensare al carcere come una comunità aperta è fondamentale che gli studenti di Giurisprudenza la vedano e il Covid ha bloccato questa esperienza.  Tra l’altro - ha aggiunto Varraso - «finchè il carcere rimarrà chiuso a studenti, parenti, familiari, amici, alla comunità intera impedendo la cura sociale, il problema dell’infermità psichica non potrà che aumentare.

Ecco che “la salute senza sbarre” a cui è stato dedicato il webinar ha preso forma. «Perché la salute sia tutelata devono esserci meno sbarre possibili, e non sono solo quelle materiali legate al sovraffollamento, alle condizioni igieniche non adeguate ma anche quelle costituite dalle categorie che isolano» ha dichiarato Gabrio Forti, professore di Diritto penale e Criminologia in Università Cattolica. Quelle stesse categorie che impediscono di tutelare le persone più fragili nella società.

«La facoltà di Giurisprudenza e l’Alta Scuola “Federico Stella” sulla giustizia penale ogni anno promuovono il ciclo di incontri “Giustizia e letteratura” e cercano di individuare un titolo che trasmetta quella “inquietudine feconda” che l’arcivescovo di Milano, monsignor Mario Delpini, ha ricordato durante l’inaugurazione dell’anno accademico nel centenario del nostro ateneo, ponendo la questione dell’ “oltre ciò che sembra” - ha concluso il professor Forti -. Rievochiamo la sensibilità di Piero Calamandrei che invitava a vedere se stessi attraverso il carcere e raccogliamo, così, la nuova sfida di civiltà». 
 

Un articolo di

Emanuela Gazzotti

Emanuela Gazzotti

Condividi su:

Newsletter

Scegli che cosa ti interessa
e resta aggiornato

Iscriviti