
News | ISMU
Migrazioni, il XXVIII Rapporto ISMU
In largo Gemelli il 1° marzo sarà presentata la nuova edizione del Rapporto che fotografa la realtà delle migrazioni in Italia. In presenza e in diretta streaming
| Redazione
07 marzo 2024
Condividi su:
Oggi sono più di cinque milioni, l’8,5% della popolazione italiana, nel 2014 erano quattro milioni e mezzo e nel 1991 solo 354.000. L’immigrazione è decuplicata in meno di vent’anni e poi la crescita si è rallentata fino a un drastico calo negli ultimi anni. È cresciuto il numero dei rifugiati politici, oggi oltre 340.000, e quello dei permessi di soggiorno , arrivato al 3% del totale anche se solo uno sbarcato su 10 si è fermato in Italia. Per contro sono aumentati gli emigrati dall’Italia: i 4,5 milioni di italiani andati all’estero in dieci anni sono diventati quasi 6 milioni. Questi dati sono stati forniti da monsignor Gian Carlo Perego, arcivescovo di Ferrara-Comacchio e presidente della Fondazione Migrantes della Conferenza Episcopale Italiana, intervenuto martedì 5 marzo al convegno “Migrazioni e religioni” promosso dal dipartimento di Psicologia e dal Centro di ricerca Welfare, Work, Enterprise Lifelong Learning (WWELL) dell’Università Cattolica.
«L’immigrazione sta cambiando, strutturando diversamente la vita delle città, delle famiglie e delle persone» – ha detto monsignor Perego –, e quella che lui ha chiamato «una rivoluzione che sta avvenendo nella vita sociale, economica e culturale, ed ecclesiale delle nostre città» emerge in cinque ambiti in particolare: il mondo del lavoro (2 milioni e 400mila lavoratori stranieri occupati in Italia); la famiglia (il 9,5% delle famiglie italiane); la scuola (878mila presenze, l’11,3% degli alunni); la cittadinanza (oggi 1,5 milioni ha la cittadinanza italiana anche se di questi il 30% si è trasferito in altri paesi europei); la comunità cristiana (oltre 2,5 milioni sono cristiani di cui 1,5 ortodossi e 151.000 protestanti).
L’esperienza religiosa che entra nella vita personale e sociale caratterizza particolarmente il fenomeno delle migrazioni che ha visto una crescita esponenziale delle minoranze. Per esemplificare, secondo i dati Cesnur 2023, tra gli stranieri con cittadinanza italiana quasi 600mila sono di religione islamica, 445mila ortodossa, 366mila protestante, tra gli immigrati l’appartenenza religiosa è nel 34,2% dei casi musulmana, nel 26,8% ortodossa, nel 16,5% cattolica. Ma «perché ci sia un pluralismo religioso occorre che ogni religione abbia riconosciuta la libertà religiosa, i luoghi di culto, l’attività pastorale, culturale, caritativa…» – ha continuato monsignor Perego, spiegando poi i diversi tipi di strumentalizzazione della religione a scopi identitari, o per motivi politici.
Anche ammesso di riuscire a superare queste strumentalizzazioni è però ancora necessario “umanizzare” i migranti sulla base dei principi di uguaglianza e libertà che si fondano su quello di fraternità.
Il binomio migrazioni-religione è, dunque, sfidante per la società, per il lavoro, la famiglia, la democrazia, la vita della chiesa. Anche Laura Zanfrini, docente di Sociologia delle migrazioni e della convivenza interetnica e direttrice della Summer School “Mobilità umana e giustizia globale” promossa dall’Università Cattolica, ha riportato numerosi esempi di tale carattere sfidante, sottolineando le implicazioni problematiche ma anche le loro potenzialità nel fare crescere le nostre competenze e consapevolezze. Così, ad esempio, le migrazioni forzate ci obbligano a fare i conti con l’intricata (spesso conflittuale) geografia religiosa di molti paesi d’origine, ma ci offrono anche l’occasione di comprendere l’importanza dei diritti religiosi e loro stretto legame con la libertà personale e la “qualità” della democrazia.
L’insediamento dei migranti e delle loro famiglie, e ancor più l’esperienza delle seconde generazioni, interpella l’identità stessa delle società europee e la loro capacità di “metabolizzare” la propria trasformazione multietnica e multireligiosa, ribadendo al contempo i propri valori e principi costitutivi. Nella scuola così come nel mondo del lavoro, la necessità di gestire il pluralismo religioso può diventare una “palestra di cittadinanza”, purché le appartenenze religiose siano riconosciute e accettate (diversamente da quanto avviene nei paesi che hanno scelto una interpretazione radicale e impropria del principio di laicità). Nella società più ampia, il governo della convivenza interreligiosa aiuta a forgiare il lessico, il quadro semantico e le procedure per ripensare i concetti di cittadinanza e appartenenza all’interno di una società eterogenea e globalizzata. In definitiva, «la religione dei migranti ci obbliga a ripensare la religione nello spazio pubblico in una società post-secolarizzata, riconoscendole il ruolo non solo di bene privato ma anche pubblico, un’occasione unica anche per rivitalizzare le radici cristiane dell’Europa» – ha concluso la sociologa.
Un affondo specifico sul fenomeno della radicalizzazione nei giovani con background migratorio è stato offerto, durante l’evento, dal professor Giulio Valtolina, docente di Psicologia dello Sviluppo e coordinatore dell’Unità di ricerca “Psicologia, culture, migrazioni” del dipartimento di Psicologia.
«Il processo di radicalizzazione è dinamico, non necessariamente lineare, può essere lento e graduale o manifestarsi in modo esplosivo – ha spiegato il docente –. A volte è determinato da influenze esterne come un leader “carismatico”, in altri casi può aver luogo come processo interno di auto radicalizzazione in concomitanza con altri fattori personali».
Negli anni Settanta si riteneva che i terroristi radicalizzati soffrissero di disturbi della personalità (psicopatici, sociopatici, narcisisti e paranoici). Dopo l’11 settembre si è pensato a forme di delirio o manie di persecuzione, altri hanno pensato a traumi infantili causati da atrocità perpetrate in famiglia o nel gruppo etnico come torture, stupri, esecuzioni di massa. Ma la ricerca sistematica di una psicopatologia “da radicalizzazione” o di un profilo unico di personalità “radicalizzata” ha dato risultati molto deludenti.
«La radicalizzazione religiosa esige un approccio interdisciplinare. Non è un fenomeno religioso (l’utilizzo della religione è strumentale al bisogno individuale); non è un fenomeno confessionale; è presente in diverse tradizioni religiose (islam, cristianesimo, ebraismo, induismo); implica un processo di risocializzazione (trasformazione identitaria)». Valtolina ha spiegato che tra i radicalizzati militano persone non materialmente indigenti o con scarso capitale culturale (anzi spesso hanno un titolo di studio elevato), ma persone che si auto-percepiscono come discriminate, vittime, indipendentemente dalle loro effettive condizioni di vita.
Secondo gli studiosi, il processo di radicalizzazione prevede diversi passaggi. Da una iniziale ricerca di una migliore condizione di vita, attraverso strategie di cambiamento socialmente accettabili, si passa al risentimento nei confronti del Paese ospitante, quando non si riesce a ottenere un miglior status di vita. È a questo punto che il migrante può iniziare un percorso che lo porterà a una conversione religiosa con caratteristiche radicali e che lo porterà a sentirsi più legato a coloro che l’hanno accompagnato in questo percorso e sempre più parte dell’organizzazione di cui costoro fanno parte. Infine, la fase estrema, in cui il migrante agisce con violenza contro la popolazione autoctona, e in molti casi questo attacco prevede il suicidio. Anche se questi soggetti radicalizzati vengono definiti martiri, si tratta di una condizione ben diversa da quella del martire cristiano che non cerca volontariamente la morte, ma semmai la subisce per non rinnegare la propria fede.
«I soggetti più coinvolti nella radicalizzazione sono i giovani con background migratorio di seconda e terza generazione e i convertiti all’Islam nei Paesi europei – ha concluso Valtolina. Per questo la scuola è il luogo privilegiato dove fare prevenzione, attraverso il supporto ai minori stranieri più vulnerabili e una formazione mirata e specifica degli insegnanti, come già accade in diverse scuole italiane».
Un articolo di