«Ritorna a volte il sogno in cui mi avviene / di manovrare un tram senza rotaie… / Al risveglio rispunta il dubbio antico / se questa vita non sia evento del caso / e il nostro solo un povero monologo / di domande e risposte fatte in casa»: può essere una sola poesia a spingere di conoscere un autore dopo essere stato attirato, negli anni dell’università, da una copertina acquerellata di azzurro esposta nella vetrina della libreria Vita e Pensiero con un titolo intrigante, Il tranviere metafisico.
Era una novità del catalogo multicolore all’insegna del Pesce d’Oro, un marchio mitico per noi studenti di lettere degli anni ’80. Scoprire in quel poeta un docente della Cattolica era stata una sorpresa: ma faceva lezione in un altro corso, letteratura francese. Comunque, non era stato difficile ascoltare di straforo una lezione dall’ultimo banco e poi rincorrere il dinoccolato professore per qualche domanda sulle sue poesie, fatte conoscere ad amici con i quali era nato uno spettacolo. L’esperienza della cultura, forse in particolare della letteratura, è proprio incontro e confronto tra generazioni: non solo conoscenza ma comprensione reciproca. Lo è stato tra i chiostri con Luciano Erba, sempre rimasto legato alla sua università: in Cattolica ha studiato quando componeva i primi testi ricopiandoli sull’Olivetti con cui nel ’47, dopo la fuga in Svizzera per non aderire alla Repubblica di Salò, prima di fare il correttore al “Corriere”, scrive a Contini, maestro a Friburgo, «con la morte nel cuore» per aver mancato un incontro con lui alla stazione Centrale per colpa di una ragazza. Poi per lui ci sarà Parigi e il ritorno a Milano, mentre esordisce con Linea K da Guanda nel 1951, quindi una parentesi negli Usa e poi professore ordinario in largo Gemelli fino agli anni ’90.
Tra gli esili libri presso i maggiori editori c’è uno dei suoi preferiti, per alcuni il capolavoro, uscito nell’89 nella collana “bianca” di Einaudi, L’ippopotamo, figura che appare molto terrena e antifrastica rispetto al Tranviere metafisico dell’altra raccolta. Ma anche l’animale fa «irruzioni d’azzurro», cioè trascende la realtà quotidiana a partire da un dettaglio: basta un berretto acquistato negli Usa, un filo di ferro che si spezza, la mantellina di una delle tre figlie, una nuvola, tutti simboli, come il «cerchio aperto», di uno sforzo di «ricerca delle verità non premiato da nessun verità».
«Ed io ospite di quale sera?» è una delle domande a bruciapelo con cui il poeta incontra i lettori ai crocevia dei suoi testi, perché Erba è un grande suggeritore di interrogativi più che risposte ed è uno dei suoi valori maggiori: «interroghi l’alfabeto delle cose / ma al tuo non capire niente di ogni sera / sai la risposta di un mazzo di rose?».
Così quando la lettura approfondisce il suo magistero con una frequentazione personale ecco che diventa amicizia (con buon vino sul terrazzo fiorito di via Giason del Maino: «abito a trenta metri dal suolo / questo era cielo, mi dico»), fino a pensare libri insieme, come Natale in poesia, un long seller nella collana “Nativitas”, progettato sul divanetto davanti al presepe allestito dalla moglie Mimia. Finché decide - dopo un 80° compleanno festeggiato in Cattolica con 80 scrittori amici, dalla Merini a Eco, da Raboni a Viviani, di scrivere che «si passano le stagioni / a scavare il tronco di un albero / per preparare la piroga / su cui c’imbarcheremo in autunno» e sarà una delle ultime poesie.
La cultura letteraria del Duemila ha bisogno dell’eredità di poeti come Luciano Erba e per questo è salutare tornare a leggere e seguire gli itinerari di questo «tranviere metafisico» capace di confessare che «il binario da prendere era un altro». Era fatto così, questo maestro divenuto amico, questo anziano abituato a parlare ai giovani: «Quanto a me ricordatemi come volete / ancor meglio se ne fate a meno, vivete!»