«È stata l’occasione per validare la proposta ideata e attuata nel contesto universitario – precisa Giancarlo Tamanza, coordinatore del progetto – e per ascoltare gli enti, parte attiva del programma. Il fatto di inserire adolescenti autori di reato in un contesto universitario ha l’obiettivo, almeno in parte, di favorire la possibilità di realizzare attività non solo “socialmente riparative”, ma più direttamente connesse a processi di apprendimento e di acquisizione di conoscenze e competenze. Inoltre, lavorare in un contesto sociale e relazionale qualificante, almeno sotto il profilo della percezione sociale e istituzionale, ha favorito la “valorizzazione psicosociale del sé” e la possibilità di vivere il percorso in termini non punitivi, ma autenticamente riparativi e riabilitativi».
Per ogni minore è stato realizzato un Piano Educativo Individualizzato (PEI) che prevedeva azioni socialmente utili per l’apprendimento e lo sviluppo di competenze e abilità, quali ad esempi attività segretariale di supporto all’attività di ricerca (trascrizione di interviste, inserimento dati, correzione bozze, ricerche bibliografiche), corsi di inglese e di spagnolo, alfabetizzazione informatica.
Nicola Maccioni, direttore della Cooperativa Area, ha coinvolto il gruppo di giovani nel progetto di trekkingtalktherapy – circa 100 chilometri in sei giorni nella parte nord del lago di Garda –. Credo sia stato «molto importante per i ragazzi, che non sono abituati a immergersi nella natura trascorrere le loro giornate a casa o al parchetto. Attraverso il proprio corpo, attraverso la fatica, sono entrati in contatto con le proprie emozioni, per capire come ci si sente davvero».
Un percorso che poi è proseguito con il gruppo di parola. «Si sono ritrovati attorno a un cerchio – spiega Ilaria Marchetti dell’Istituto di Mediazione familiare e sociale –, e hanno provato a riflettere sul tema del reato e sulle emozioni che hanno provato». È più difficile per questi giovani entrare in sintonia con le loro vittime, «perché sono i primi a sentirsi vittime di ingiustizie e spesso lo sono – ha aggiunto la mediatrice –. Tuttavia, nel corso di questi quattro incontri, sono riusciti a mettere a fuoco quello che le persone offese hanno provato». Infine, i giovani hanno individuato le quattro parole più rappresentative del loro percorso. «Sono ragazzi che hanno bisogno di giustizia e allo stesso tempo desiderano sentirsi inclusi e non etichettati come mostri. La terza parola è sostenibilità, il contatto con la natura li ha toccati nel profondo, la quarta è riparazione: la volontà di rimediare a quanto hanno fatto».