Per oggi, venerdì 7 ottobre, in Russia la Conferenza Episcopale cattolica aveva indetto una giornata di preghiera e di digiuno, perché – questa era la motivazione offerta secondo le indicazioni di papa Francesco – “non vogliamo abituarci alla guerra, non vogliamo rassegnarci alla sua ineluttabilità”.
E adesso sentiamo che il premio Nobel per la pace di quest’anno è stato assegnato a Memorial, all’associazione per i diritti umani ucraina Center for Civil Liberties e all’attivista bielorusso Ales Bialiacki. Due organizzazioni e una persona, ma in realtà si tratta di persone perché questo è al centro della loro attività: il valore irriducibile della persona umana. Che si tratti di denunciare le attuali violazioni dei diritti umani in Bielorussia e, prima ancora, gli eccidi del regime sovietico, come fece Bialiacki sin dall’inizio degli anni ’80 quando organizzò una manifestazione per ricordare le vittime sepolte nelle fosse comuni di Kuropaty (vicino a Minsk: oltre 30.000 corpi, qualcuno arriva a una cifra ben più terribile), che si tratti di denunciare i crimini contro l’umanità che caratterizzano l’aggressione russa in Ucraina di questi giorni, che si tratti di testimoniare le tragedie che hanno segnato la storia del regime sovietico, sempre, in tutti e tre i casi, il cuore di tutto è l’uomo.
Non è una mossa politica che muove queste tre realtà, ma quella spinta di natura morale che ha sempre caratterizzato il dissenso dei paesi dell’est ai tempi sovietici e che adesso rinasce in forme diverse. Sono forme diverse, oggi, ma sempre la stessa è la ragione, perché «l’uomo è l’unità di misura di Memorial», come diceva Arsenij Roginskij, che di Memorial fu presidente dal 1998 alla morte nel 2017.
In un mondo che sembra non saper trovare le ragioni di nulla, il premio Nobel di quest’anno è esattamente la sfida di una ragione che ha motivi per non disperare. Qualche anno fa, una nostra studentessa, scrivendo la sua tesi negli archivi di Memorial, chiese all’anziana attivista che la stava aiutando cosa l’avesse spinta, all’inizio degli anni ’50, a condividere delle letture poetiche proibite con dei suoi amici (cosa che le era costata allora una condanna a 25 anni di carcere). La risposta era stata semplice e disarmante: «Amavo la poesia, come potevo non condividerla con i miei amici?». Memorial è questo, e questo sono Bialiacki e il Center for Civil Liberties: come si può non condividere questa bellezza dell’umano, forte e disarmante, nonostante tutto?