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Paola, storyteller del vino: «Dietro ogni bottiglia c'è una storia»

17 dicembre 2020

Paola, storyteller del vino: «Dietro ogni bottiglia c'è una storia»

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Ormai dal 1500, il prodotto più famoso della zona di Saronno è l’amaretto, un liquore aromatico ottenuto mischiando erbe e mandorle amare che si identifica così tanto con il suo luogo di origine da essere conosciuto in quasi tutti i bar con un nome che richiama quello della città. Che da lì nasca qualcuno con una viscerale passione per il vino è insomma quantomeno singolare, eppure Paola Marranzano ha consacrato al mondo dell’enologia buona parte della sua vita, una passione che l'ha portata a frequentare il Master in Comunicazione per il settore enologico e il territorio dell’Università Cattolica a Brescia. Questa è la sua storia, da gustarsi con calma come si fa con un bicchiere del miglior Chardonnay d’annata.

Quando ti sei appassionata al vino?
«Io ero la più grande tra i partecipanti al master. Lavoro già da parecchio tempo e la passione per il vino mi accompagna ormai da almeno metà della mia vita. Ho cominciato a chiedermi dove vengono prodotte e come sono fatte le bottiglie che ami, cerchi di capire come riconoscerne la qualità. Secondo me, ancora più del cibo, quest’ultimo infatti si lega all’idea della condivisione e della convivialità. Pensa anche solo al brindisi: è un qualcosa che inevitabilmente devi fare con qualcuno. Poi l’essere italiana e la voglia di valorizzare un tale patrimonio ha contribuito sicuramente ad avvicinarmi ulteriormente a tutto questo mondo. Potrei considerarla quasi la molla che mi ha convinto a indirizzarmi verso questo master. L’ho visto come un segno del destino».

Esiste una tradizione vinicola del luogo da cui vieni?
«In realtà sì, ma l’ho scoperto solo di recente grazie al master. Io sono di Saronno, tra la provincia di Varese e quella di Milano, ed è stato il professor Paolo Massobrio (famoso giornalista e critico enogastronomico) a farmi conoscere il passato vinicolo di questa zona. Soprattutto nel varesotto infatti c’erano un sacco di vitigni, poi scomparsi dopo la guerra. In generale poi, se vogliamo parlare a livello regionale, la Lombardia produce un sacco di vini che adoro: nella zona di Brescia, dove ho fatto il master, nascono per esempio i Franciacorta di cui mi sono innamorata proprio in quel periodo. Possiamo dire quindi che vengo da una regione con una grande tradizione vinicola».

Hai una tipologia di vino che ami di più? Non lo so, magari apprezzi quelli corposi piuttosto che quelli secchi...
«Impossibile scegliere. È come chiedere a un cinefilo di indicare il suo regista preferito. Confermo però la mia passione per il Nebbiolo, un vitigno da uva rossa/nera che cresce solo in condizioni particolari. Poi io non posso darti giudizi definitivi: sto ancora esplorando. È il bello e il brutto del vino d’altra parte: è un mondo sterminato dove non finisci mai di imparare cose nuove».

A beneficio dei profani, che magari potrebbero associare o confondere i due diversi percorsi, quale differenza esiste tra il master e un corso da sommelier?
«Il master era finalizzato alla comunicazione e al marketing, alla capacità di veicolare determinati contenuti. Non è quindi necessario essere un sommelier per fare il lavoro a cui ti prepara il master: io non devo andare a servire materialmente il vino al tavolo. Ovviamente, per parlare con cognizione di causa di un argomento più ne sai e meglio è. E a me piace documentarmi. Per questo ho deciso di frequentare anche un corso da sommelier. Posso dire che il master è stato la spinta finale per andare a strutturare meglio un discorso che avevo già avviato».

Tu hai studiato quindi anche il “marketing del vino”. Come vendi una bottiglia rispetto a un altro prodotto?
«Bisogna considerare che quando scegli una bottiglia lo fai portandoti dietro tutto un corredo di aspettative. Ci sono in gioco anche degli aspetti puramente emotivi. Poi esiste anche chi compra un vino “a cuor leggero”, senza saperne nulla. A quel punto anche un dettaglio apparentemente secondario come l’etichetta ha un suo peso. Il design ha un’importanza non indifferente nel marketing del vino. Bisogna poi fare attenzione alle parole con cui raccontiamo il prodotto: si vuole coinvolgere le persone, si punta a fargli provare delle sensazioni. Anche in questo campo si finisce per parlare di storytelling. La figura di qualcuno che sia in grado di guidarti in questo ecosistema diventa importantissima ed è quella che dovrebbe venire fuori da un master del genere».

Sempre grazie al master, tu hai iniziato uno stage. Dove?
«Sto collaborando con un’agenzia di comunicazione a Brescia che è ovviamente specializzata proprio nel marketing del settore “food and beverage”. Sono insomma rimasta anche in questo caso nel contesto che più mi interessa esplorare».

Il master ha molti corsi dai nomi affascinanti. Uno che incuriosisce particolarmente è “Psicologia dei consumi enologici”. Cosa si studia?
«È molto affascinante. Si cerca di capire tutti i meccanismi che ci spingono al consumo del prodotto. Si parte sempre dal comprendere la differenza tra il “consumo per bisogno” e il “consumo per desiderio”. A pensarci bene, l’esame di psicologia dei consumi è stato effettivamente uno dei più particolari e impegnativi. C’era anche tutta una parte dedicata alla neuroscienza e in particolare alla neuro-biologia, che indaga tutto ciò che accade nel corpo durante la degustazione. Tutto questo si rivela molto utile: a me sta servendo molto ancora adesso».

Credi che bere un bicchiere di vino possa diventare definitivamente un’esperienza completa e appagante, che vada oltre l’idea classica del bicchiere da consumare distrattamente a pranzo?
«Indubbiamente sì. Già prima di questa parentesi obbligata dovuta al Covid, si stava vivendo un interesse crescente per il turismo esperienziale nei luoghi del vino. Bere un bicchiere con un sottofondo musicale proprio dove il vino nasce era ormai una frontiera riconosciuta del turismo enogastronomico».

È un po’ quello che fanno le cantine coinvolte in una manifestazione come Cantine Aperte.
«Certo, è proprio quello che propongono certe iniziative in Italia. Ma anche tanti piccoli produttori ricevevano ormai regolarmente visite da consumatori che si organizzavano autonomamente perché volevano sapere di più su quello che avevano bevuto. Si trattava di un trend in grandissima crescita, anche grazie ai social network».

Il tuo stato di Whatsapp è “in nerd we trust”. Pensi che in qualche modo anche il vino possa diventare una “cosa da nerd”?
«Il “nerdismo” è applicabile a qualunque campo: tu puoi essere nerd di qualunque cosa. Ho visto gente che ha una cultura sterminata e si diverte a decodificare ogni singola molecola che c’è nel bicchiere: questi tipi sembrano veramente dei “programmatori del vino”. Esistono già insomma i “nerd enologici”».

Quale bottiglia ti somiglia di più?
«Vale una risposta che è sempre valida, anche nel mondo del vino: dipende. A parte gli scherzi, influisce molto il momento in cui ti trovi».

In questo momento allora che vino rappresenta meglio Paola?
«Adesso direi un bel vino corposo, non proprio giovanissimo ma già con qualche annetto di storia e qualcosa da raccontare. Un vino con ancora un buon potenziale di sviluppo. Sicuramente tannico e in grado di lasciarti un buon ricordo ma anche un po’ frizzantino, come certe giornate in cui vuoi restare sereno».

 

 

Un articolo di

Manuel Santangelo

Scuola di Giornalismo

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