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Pensare la periferia come pienezza della vita urbana

28 luglio 2023

Pensare la periferia come pienezza della vita urbana

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Qualunque amministratore pubblico conosce il problema: con lo sviluppo di un’economia globale, la trasformazione delle città è diventata sempre più “centripeta”, ossia tende a valorizzare  il centro a discapito delle periferie - e non sempre il fulcro cittadino è il centro storico, perché le metropoli allargandosi creano anche nuovi centri direzionali (aree commerciali sorte su insediamenti ex industriali, snodi della mobilità, aree bonificate ecc.) all’insegna della modernità, dell’IT e della commistione tra servizi per lo shopping e per l’intrattenimento.

Quello che rimane ai margini, in questo processo, sono le funzioni abitative: dove abitano i residenti delle aree urbane? Come si distribuiscono? Come co-abitano e come usano le infrastrutture i vari gruppi sociali?  Esiste ancora una qualità di vita di/in periferia nelle città globali uniformate? Esistono politiche urbane per la residenzialità?

Il mutamento ha investito violentemente le grandi città, negli ultimi decenni, con processi di “invasione” e di “sostituzione” sociale (questi termini, come venivano usati dalla scuola dell’Ecologia urbana di Chicago negli anni ’20 del Novecento, non avevano nulla di ideologico). A dettare le scelte abitative non è solo il mercato immobiliare, ma anche i trend demografici, che hanno creato l’alternanza tra le vecchie e le nuove generazioni urbane.

Anziani spesso soli e giovani single - spesso precari, aspiranti ad un’occupazione nel capitalismo del benessere - si trovano a convivere negli spazi comuni nei/tra i condomini pensati per giovani coppie e famiglie un tempo numerose. Oggi, nelle zone periferiche e semi-periferiche, abitano sempre più nuclei di origine migratoria, in cui non tutti i membri sono necessariamente stranieri ma spesso vivono una perenne estraneità: lavoratori o famiglie mediamente giovani, cittadini italiani ‘di nuova generazione’ che hanno titolo legale per risiedere ma non hanno ancora acquisito un pieno senso di appartenenza territoriale, tra l’aspirazione a rimanere e la nostalgia del ritornare. 

Il tessuto sociale che si va formando nei quartieri è più che mai misto e frammentato, difficile da gestire e quindi spesso non gestito. Le famiglie autoctone, quando possono, scelgono di convergere verso il centro città, per usufruire di maggiori servizi e di un capitale simbolico legato alle vie e alle case ‘alla moda’, oppure escono dalla città verso le cittadine satellite della provincia dove c’è più verde e silenzio, spazi più estesi. I giovani sono attratti verso le aree ‘pulsanti’ della città, dove diventano consumatori di una movida incessante.

In periferia le occasioni di socialità si limitano ai mezzi di trasporto e ai crocevia dello shopping, ben poca cosa per una qualità della vita urbana: mancano luoghi e strutture di partecipazione, creazione, solidarietà, adeguati ai bisogni che cambiano e manca la cura degli spazi. C’è chi legge nell’assenza di questi luoghi un segno di abbandono istituzionale, chi una violenza simbolica che logora gli abitanti e accresce la conflittualità, chi un pericoloso ‘vuoto’ che - come spesso accade in Italia - verrà prima o poi riempito da logiche affaristiche di vario tipo, tra cui quelle illegali e criminali. E il circolo vizioso dell’insicurezza, abbandono, risentimento, appropriazione illecita e solitudine, si ripete.

Se pensassimo la periferia non come ‘vuoto’ ma come ‘pienezza’ della vita urbana, ossia come cintura vitale che abbraccia il centro (già denso di storicità e patrimonio di bellezza) e gli conferisce un senso, ci accorgeremmo che essa merita più rispetto, che ha una storia e una bellezza a sé, una sua identità nel sistema urbano, tutta da costruire e interiorizzare con modalità adatte ai tempi dell’IT e dell’ipermobilità.

Ogni quartiere di fatto ha il suo volto, nel tempo ha ‘dato vita’ ai suoi abitanti prima ancora di aver segnato il loro destino; e possiede i suoi presidi sociali (prima di tutto le scuole e gli oratori, talvolta le biblioteche e le RSA), dove conserva testimonianza di arrivi e partenze, di successo e fallimento, di commistioni e separazioni. Se la denatalità sta portando a una riduzione dei presidi scolastici e culturali, una seria politica per la residenzialità in periferia dovrebbe contrastare questo trend: tenere aperte le scuole e le biblioteche, anche quando risultano ‘sottodimensionate’ per numero di utenti, anche fuori dall’orario di ufficio, da far diventare luoghi multifunzionali.

Le istituzioni pubbliche dovrebbero individuare degli amministratori e mediatori territoriali per creare eventi, infrastrutture e soprattutto servizi (basta coi progetti-pilota!) in cui coinvolgere sempre più i cittadini delle varie fasce d’età e di bisogno, e non solo come utenti ma anche come co-responsabili. Se i residenti si riconoscono all’interno di un patto territoriale, si attiveranno nella ‘comunità educante’ sia come singoli sia come rappresentanti di realtà più allargate (gruppi sociali, culturali, religiosi, politici, ecc.). 

La sfida è trasformare i condomini, e ciò che ci sta in mezzo, in realtà sociali complesse e significative proprio perché multi - e inter-culturali: se sapremo dare voce a chi vive una marginalità imposta dai grandi sommovimenti infrastrutturali ed economici, in primis i più giovani e i più anziani, potremo scoprire le radici e gli orizzonti di una nuova cultura dell’abitare in periferia.
 

Un articolo di

Maddalena Colombo

Maddalena Colombo

docente di Sociologia dell’educazione alla Facoltà di Scienze della formazione

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